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Quanto sei disposto a farti pagare per i tuoi dati personali?

La privacy ha veramente un valore? Nell’era della trasformazione digitale e dei Big Data sembrerebbe proprio di sì. Ma quanti di noi si ricordano l’ultima volta che hanno letto i termini e le condizioni di utilizzo dei suoi dati prima d’iscriversi a un servizio online?

In pochi hanno scaricato l’app Immuni per il contact tracing e il monitoraggio dei contagi da Covid-19. Durante la sua evoluzione c’è stata un’alzata di scudi generale da parte di chi sosteneva che Immuni sarebbe servita a controllarci come fa la Cina, in modo manifesto e dichiarato, con i suoi cittadini.

Eppure nessuno sembra preoccuparsi di tutto quello che siamo liberamente abituati a usare online in cambio dei nostri dati. Il ragionamento è semplice: se un servizio web, che è costato decine o centinaia di migliaia di euro, per accedere ed essere usato ci chiede ‘solo’ i nostri dati personali, allora questi dati hanno un valore (economico) che non ci viene riconosciuto se non con la possibilità di utilizzo del servizio stesso.

Ma siamo sicuri che questo scambio sia equo da punto di vista economico?

Tu non ci pensi ai tuoi dati, ma loro sì

Il pioniere dello streaming online, Netflix, per anni ha continuato ad avere bilanci in rosso ma a crescere nel numero di abbonati e, ovviamente, nella quantità di dati immagazzinati nei suoi server. Tutte quelle informazioni serviranno a qualcosa, prima o poi. Oltre al fatturato da abbonamenti, è probabile che Netflix sappia già come creare valore, economico ovviamente, da tutti quei dati.

Corriamo da un social all’altro senza sosta, senza domandarci come vengano usati i dati che lasciamo. Usiamo nuove app di provenienza sconosciuta o poco chiara, come TikTok e FaceApp, senza preoccuparci dell’altro lato della medaglia, senza chiederci che cosa faranno dei nostri dati due paesi non proprio democratici, come Cina (TikTok) e Russia (FaceApp), che hanno il potere di controllo sulle aziende che hanno prodotto le due piattaforme.

Abbiamo paura del contact tracing sul modello cinese, ma lasciamo che minorenni di giovanissima età carichino i propri video su TikTok.

Tutti abbiamo paura delle conseguenze dell’uso della tecnologia di riconoscimento facciale, ma volontariamente carichiamo le nostre foto su un’applicazione russa di cui sappiamo pochissimo e nemmeno ci informiamo. Solo un anno fa, il senatore americano Chuck Schumer ha chiesto all’Fbi di indagare su FaceApp e i sospetti rimangono.

I dati sono o no un nostro diritto di proprietà?!

È giusto lasciare tutti questi dati liberamente ad aziende che grazie ai Big Data fatturano più del Pil di molti stati? C’è chi dico no, come l’imprenditore americano Andrew Yang che ha creato il Data Dividend Project (DDP), un movimento dedicato a riprendere il controllo dei nostri dati personali.

Non ci sono molte informazioni su come il DDP riuscirà a perseguire questo scopo, ma sembra che il principale obiettivo sia sensibilizzare e mobilitare le persone. Come si legge sul sito del progetto, i singoli consumatori non possono fare molto per combattere le grandi aziende o richiedere pagamenti per i dati, ma più persone sono coinvolte, maggiore è il loro potere.

L’obiettivo finale di Yang è che gli americani siano in grado di rivendicare i loro dati come un diritto di proprietà e di essere pagati se scelgono di condividerli.

Chi si iscrive al progetto, autorizza il DDP ad agire come agente autorizzato per esercitare i propri diritti legali ai sensi del California Consumer Privacy Act (CCPA) recentemente emanato. L’atto è entrato in vigore il primo gennaio di quest’anno e offre ai consumatori in California il diritto di sapere come vengono raccolti e condivisi i loro dati personali, il diritto di chiedere che i loro dati vengano cancellati e il diritto di rinunciare alla vendita o alla condivisione delle loro informazioni personali. La legge proibisce inoltre alle aziende di vendere le informazioni personali dei consumatori di età inferiore ai 16 anni senza il consenso esplicito.

Noi europei qualcosa del genere lo abbiamo già sentito.

GDPR, un regolamento all’avanguardia

Dal 2018 in Europa è in vigore il GDP (General Data Protection Regulation), un regolamento a tutela dei dati che pone il nostro continente un grandino o due sopra agli altri.

Come abbiamo discusso anche noi nella nostra agenzia, grazie agli eventi di Singularity University Legnano Chapter, è il momento di parlare di etica, sia nelle tecnologie esponenziali, come l’intelligenza artificiale, sia in quelle digital, come Internet.

La free economy degli anni passati è forse arrivata al tramonto, molti invece dicono che ormai non si può più tornare indietro. Siamo abituati a lasciare dati per non pagare dei servizi che oggi fanno parte della nostra quotidianità.

Non possiamo però più pensare che lasciare i nostri dati ad altri, senza la consapevolezza preventiva e senza un controllo sul loro utilizzo, possa continuare a essere la regola. Il futuro che abbiamo davanti sarà sempre più automatizzato e digitalizzato, e i dati diventeranno sempre più importanti e preziosi, un vero strumento di potere.

Il GDPR è nato proprio per far fronte al trattamento dei dati e ha creato delle difficoltà a tutte quelle aziende che hanno clienti in Europa ma la sede in altri continenti. Alcuni siti hanno all’inizio addirittura scelto l’auto oscuramento per i visitatori europei pur di non doversi adeguare al nuovo regolamento.

Chi pensa che si tratti di un eccesso di burocrazia si sbaglia. L’Europa ha fatto un passo importante e ha segnato la strada. A chi si occupa di web marketing, il GDPR ha finalmente permesso di trasmettere il valore della qualità dei dati e della sicurezza con cui vengono gestiti.

Costruire delle liste di persone interessate al proprio business, per esempio, dal 2018 è più complicato, ma si è alzata di molto l’asticella della qualità e dell’attenzione a come questi database vengono costruiti. È aumentato anche il rispetto di molte aziende nei confronti dei dati degli utenti e, quindi, delle persone stesse.

Sono passati solo due anni dall’entrata in vigore del GDPR, la strada da fare è ancora lunga, ma non possiamo non ammettere che ha aiutato a creare una cultura del dato.

Ho fatto smart working per 8 anni, ho vissuto in una grotta?

Il riferimento è ovviamente al video di Beppe Sala con il quale il sindaco di Milano invitava i milanesi a tornare a lavorare in ufficio e a lasciare la ‘grotta’ del lavoro da casa.

Tante le reazioni di chi si è sentito beffato due volte: da una parte, il Covid che ha mandato in crisi la vita e il lavoro, dall’altra chi pensa che lavorare da casa non sia lavorare.

Sull’argomento posso dire la mia perché ho avuto una lunga esperienza di lavoro agile, di cui sento un po’ la mancanza ma in modo contraddittorio, tra poco ti spiego perché.

Lavorare da casa non è lavorare

Mi sembra un po’ la storia della fattura elettronica, grazie alla quale avremmo dovuto risolvere, in larga parte, il problema dell’evasione fiscale. Chi non faceva le fatture prima non le fa neanche con la fatturazione elettronica, così come chi non lavora e fa il furbo in ufficio, lo fa anche a casa, e chi invece è professionale da una parte lo è anche dall’altra.

Il pregiudizio sul lavoro da casa è il motivo principale per cui in Italia non riesce a diventare una modalità stabile e diffusa. I datori di lavoro, soprattutto i meno giovani, non si fidano dei propri dipendenti, la spiegazione è tutta qui, ricorrono al telelavoro solo quando non hanno altra scelta, così com’è successo durante la quarantena.

Il fatto che l’Italia sia un paese dalla bassa produttività in rapporto alle ore lavorate da loro un po’ di ragione, ma dove sta allora quel cambio di mentalità che doveva accompagnare la riscossa del digital avvenuta nel momento del bisogno? Finita l’emergenza è finita anche la riscossa?

E non parliamo di Smart Working

Ho lavorato da casa per 8 anni come free lance, si trattava di un ibrido tra il telelavoro e lo smart

working. Lavoravo con degli obiettivi, non avevo obblighi di orario ma ero io che me li ero imposti, probabilmente per un condizionamento culturale (difficile sganciarsi dall’abitudine del ‘9–18’), un po’ per autodisciplina.

Sì perché lavorando in autonomia bisogna cercare di non cadere nelle tentazioni che si hanno a casa, quelle che fanno perdere tempo. Per essere produttivi bisogna darsi delle regole e rispettarle, questo è fondamentale, soprattutto per un lavoratore autonomo.

Mi capitava spesso di lavorare anche in altre sedi e anche questo richiede una certa capacità organizzazione.

Quello che ho fatto in quegli anni era un tipo di smart working, un lavoro a obiettivi, l’orario da ufficio classico era una mia scelta, quello che dovevo fare era portare i risultati richiesti.

Ciò che le aziende chiedono ai lavoratori oggi è, invece, quasi sempre telelavoro, non smart working. Sono poche quelle pronte e strutturate per fare il lavoro agile per obiettivi e se manca la fiducia di base sulla professionalità dei dipendenti è meglio non pensarci neanche.

Lavorare da casa è bello?

Ora che tanti miei conoscenti hanno provato l’esperienza che per me è durata 8 anni, sono in tanti ad aver capito che non è proprio una passeggiata. Sono tante le difficoltà pratiche e organizzative già in una situazione normale, figuriamoci in periodo di Covid, con asili e scuole chiuse e i figli piccoli che si auto invitano alle video call.

Ma ci sono anche problemi di altro tipo. Lavorare da casa vuol dire lavorare in solitudine, non bastano Zoom o Skype a cambiare questa situazione. La relazione umana e lo scambio professionale sono limitati e a me, a un certo punto, la cosa ha cominciato a pesare.

Ho sempre cercato di auto motivarmi, di studiare e formarmi, ma spesso mancava qualcosa, quella parte che da solo non riuscivo mai a trovare.

La modalità ideale di lavoro, quindi, per me è una soluzione ibrida, un mix tra lavoro in ufficio e da casa, ma secondo un ottica smart. Non possiamo più pensare che sia il tempo la variabile su cui essere valutati economicamente, o per lo meno non può essere l’unico parametro.

È una questione di responsabilizzazione dei lavoratori e chi fa selezione dovrebbe essere in grado di fare una valutazione anche in questo senso.

Professionalità vuol dire fare bene il proprio lavoro anche quando non c’è nessuno che ti controlla”.

Tutta l’economia si basa sulla fiducia, da sempre, e così dovrebbe essere anche per il rapporto di lavoro. Il controllo può arrivare fino a un certo punto, poi c’è la professionalità di ognuno, non importa quale sia il luogo di lavoro.

Un giovane ragazzo guarda lontano

Perché non la formatti meglio quella pagina?

Mi piacciano le pagine web ben formattate. Equilibrio, leggibilità, il giusto mix di testi, spazi bianchi, immagini, elenchi, ecc.

Con tutta la varietà di contenuti che ci sono oggi a disposizione, perché ci dobbiamo limitare a pubblicare muri di testo che, diciamocelo, non fanno venir voglia di leggere, ma di scappare!

“Le aziende devono diventare degli editori”.

I siti aziendali dovrebbero prendere esempio da quelli dei giornali, non solo perché si dice spesso che “le aziende devono diventare degli editori”, quando si parla di contenuti. Quella è un’altra storia, da cui però prendo spunto.

Corriere, Repubblica, New York Times, Medium, e… Scegli tu un sito giornalistico o editoriale a caso. Cos’hanno tutti in comune? Molte cose, ma in particolare una: la larghezza del corpo del testo. Non è a pieno schermo, ma è piuttosto stretta, con molto spazio bianco su entrambi i lati, così l’occhio non affatica e la lettura è più confortevole.

Perché moltissimi siti aziendali hanno testi che partono dal bordo sinistro dello schermo e arrivano fino a quello destro?

Dopo aver letto al prima riga già mi fa mal di testa. Eppure niente, colori sgargianti in ossequio alla brand identity, tanti slogan, foto perfette (quasi sempre di stock, invece che scatti originali), ma i testi niente, sempre formattati male e larghissimi, a pieno schermo, senza un a capo se non dopo trenta righe.

E i contenuti non testuali?

Con la varietà che il web mette a disposizione, grazie alla multimedialità, possibile che non si riesca a fornire un contenuto accattivante da navigare, ricco e vario?

Care aziende, prendere esempio dai siti dei giornali.

Partiamo da casa nostra, con il sito del Corriere della Sera:

Cento giorni in EuropaCento giorni in Europa è un progetto speciale del Corriere della Sera

Storie raccontate in modo coinvolgente, con narrazioni costruite con immagini, testi, video, grafiche e infografiche, audio e suoni.

“Eh sì, ma i contenuti bisogna produrli!”

Vero, verissimo, ma questa attività dovrebbe già essere prevista nella strategia di tutte le aziende moderne. Ma i contenuti puoi anche averli già pronti, in casa, bisogna solo censirli, organizzarli e strutturarli in una narrazione (hai notato che non ho usato l’abusatissimo termine ‘storytelling’? Ops, ci sono cascato).

È una questione di valore che si dà all’esperienza, di far sentire coinvolte le persone che visitano le tue pagine, di farle partecipare e non considerarle solo spettatori passivi.

Puoi solamente guardare un quadro, e ammirarne i colori, oppure conoscerne la storia, farti spiegare i dettagli e i retroscena, come in questo esempio.

Dal 2021, Google punterà all’esperienza di pagina nel prossimo aggiornamento del suo algoritmo, ma speriamo che il riferimento non sia solo al tempo di caricamento delle pagine e ad altri parametri tecnici (HTTPS, mobile friendly, ecc). Il tempo di permanenza su una un contenuto vorrà pur dire qualcosa, e più è coinvolgente e interattivo più questo tempo aumenta.

Perché un sito aziendale non dovrebbe usare questi strumenti visuali di narrazione?

Non accontentarti di pagine standard e layout preconfezionati, chiedi di più, racconta e affascina i tuoi visitatori.

Se ti servono altre ispirazioni, guarda qui:

Design e arredamento: la tecnologia è la grande opportunità

Ne hanno parlato importanti player del mercato nella Mission Two di SingularityU Legnano Chapter. Dal White Paper “DesignTech for future’, una tavola rotonda sul futuro e le opportunità che la tecnologia rende possibili.

Dei primi dieci in questa speciale classifica, sette sono siti cinesi, pensati per il mercato interno del paese asiatico e frequentati praticamente solo da cinesi.

In un momento di riflessione come quello che stiamo vivendo, il dibattito a livello locale su innovazione e tecnologia promosso da SingularityU Legnano Chapter si è occupato del rapporto tra la tecnologia e due eccellenze italiane e del territorio, l’arredamento e design.

L’obiettivo era quello di trovare spunti per il rilancio dell’economia dopo il trauma del Covid-19, e il pretesto è stato un documento, il White Paper ‘DesignTech for future’ prodotto da DesignTech Hub in collaborazione con esperti del settore italiani e stranieri.

Il lockdown? Un acceleratore

Il lockdown è stato lo stimolo per immaginare il futuro degli spazi, mettendo al centro design e tecnologia e coinvolgendo i più importanti player sui temi workplace, education, hospitality, retail e public spaces.

Il risultato è stato un documento che è una traccia intellettuale in grado di farci visualizzare un futuro diverso, superando modelli obsoleti e grazie alla possibilità di sfruttare il potenziale della tecnologia a disposizione oggi.

I protagonisti del White Paper hanno raccontato la loro visione del DesignTech nella Mission Two di SingularityU Legnano Chapter, evento in web streaming andato in scena lo scorso 15 giugno.

Tecnologia, grande opportunità per il Made in Italy

Il White Paper ‘Design 4 Future’ nasce da una convinzione. La tecnologia all’interno dell’arredo dialoga con gli edifici, nelle smart home e nelle smart cities, e con le persone. “Ridefinire dal punto di vista tecnologico gli ambienti in cui viviamo, integrandoli nel design degli oggetti della nostra vita quotidiana, è una grande opportunità per il Made in Italy” ha detto Ivan Tallarico di DesignTech Hub.

L’innovazione ha bisogno del giusto contesto, che va creato e gestito. Bisogna dare vita a sistemi ampi di relazione, ambienti unici in cui conoscenza e valore economico si incontrano, cioè un ecosistema.

Gli ecosistemi oggi sono vitali, sono il modo in cui stimolare e favorire l’innovazione “e questo può avvenire solo quando si incontrano discipline diverse”, ha detto Domenico Agnello, Innovation Ecosystem Lead di PwC, “Questa multisciplinarietà implica una complessità, che va governata per diventare abilitatori di innovazione”.

Workplace: quale sarà il valore degli uffici?

Progettare e ripensare gli spazi ufficio è un tema di stretta attualità dall’inizio della pandemia. La tecnologia ha completamente cambiato la progettazione.

Già prima del Covid avevamo un modello”, ha raccontato Alessandro Adamo, Partner di Lombardini22 e DEGW Italy, “L’osservazione di un campione di organizzazioni ci diceva che la postazione di lavoro veniva occupata per il 50% del tempo. Quindi c’era già in atto una tendenza: il posto di lavoro era diventato dinamico. Da marzo tutte le aziende hanno dovuto rivedere gli spazi ufficio e si sono rese conto che il lavoro va avanti lo stesso”.

Il futuro degli spazi di lavoro? Dobbiamo considerare nuovi aspetti e focalizzarci sulla tipologia di persone che compongono l’organizzazione, sulle loro caratteristiche, in modo da definire un ambiente il più possibile rispondente a queste”.

Dovremo considerare l’oggetto edilizio come qualcosa di più fluido, come succede con il nostro ufficio. L’edificio non deve più nascere con una sola funzione, si deve adattare a più destinazioni”.

Della tecnologia dobbiamo esaminare il modo in cui entra nello spazio e nel vissuto, quali feedback ci dà, così da poterla aggiornare in base alle esigenze che cambiano”. Nel post Covid, il tema del ‘no touch’ è un’area di sviluppo importante e la tecnologia può dare grande supporto.

Cosa intendo con Figital? Una spazio fisico e non per forza un ufficio. In base alle nostre ricerche, durante la pandemia la casa si è fatta preferire nel confronto con l’ufficio: ti puoi concentrare di più, puoi fare call riservate. Il valore dell’ufficio rimane, ed è fatto delle collisioni casuali che oggi ci mancano, del senso di appartenenza e delle connessioni”.

L’ufficio oggi è uscito dall’ufficio, le attività individuali non hanno bisogno di essere fatte per forza lì. Il valore dell’ufficio rimarrà per tutto quello che è connessione fisica, per scambiare e condividere informazioni. Nel settore della moda e dell’architettura, i materiali devono essere visti e toccati, non è qualcosa di virtualizzabile.

Commistione e nuove contaminazioni

Parlando di incontro di più linguaggi e discipline, Massimo Mangini, Presidente del Gruppo Mangini, prevede una contaminazione, positiva, “tra le caratteristiche classiche dell’ufficio, come il design, e quelle del medicale, come i sistemi e i materiali sanificanti. Ma anche nel medicale entrerà il design, per umanizzare gli ambienti, renderli più idonei a persone, i pazienti, che hanno bisogno di maggiore attenzione”.

Sarà una contaminazione a doppia via grazie alla possibilità di importare tecnologia da altri ambiti.

Per il DesignTech, Milano potrà essere l’hub dell’innovazione?

Milano devo prendersi il ruolo di hub del DesighTech”, ha detto Marnix Schrooyen (Global Sales Director di Kreon), “non ha bisogno di sottovalutarsi. In meno di 10 anni la città è cresciuta molto, ha la cultura del ‘saper fare’ nel DNA”.

Oggi l’innovazione, come l’economia, è senza confini, aperta a chi vuole contribuire. Milano dev’essere aperta a farsi contaminare a recepire gli stimoli e gli impulsi che provengono da ogni parte. Per fare questo le aziende del design devo avere una forte impronta digitale ed essere collaborative.

Mi piace dire che ci sono due tipi di innovazione, quella dovuta, quando arriva da una legge che la impone, è quella voluta, quando nasce da un desiderio e da una ricerca. Le vedere aziende innovatrici hanno questo curiosità” ha aggiunto Schrooyen.

Salone del Mobile e Innovation District

Milano quest’anno ha visto la cancellazione dell’evento più importante dell’anno per il mondo degli interni, Il Salone del Mobile. A fianco della Fiera di Rho, sede de Il Salone, è nato il MIND Milano Innovation District, un polmone dell’innovazione. Questi due grandi collettori di interesse si potranno influenzare a vicenda?

Per Alberto Scavolini (Ceo & Managing Director di Ernestomeda Spa) è molto facile pensare che ci sarà una commistione: “Sono affiancanti, qualcosa avverrà sicuramente, ci sarà chi visiterà il Salone e poi andrà al MIND e viceversa”.

L’innovazione deve partire dalle aziende”, ha proseguito Scavolini, “il Salone è una vetrina, un incubatore di innovazione a cui le aziende partecipano per presentare le proprie novità. Penso che la commistione col MIND ci sarà, anche se oggi è ancora difficile prevedere cosa accadrà dopo il Covid agli eventi fieristici”.

L’innovazione parte dalle aziende, anche le più piccole e anche dalle start-up.

Per le nostre aziende è importante trovare delle start-up in grado di integrare gli elementi che sono per noi più familiari, cioè design e performance”, ha commentato Mangini, “L’innovazione non è solo delle grandi aziende, è grazie alle piccole aziende che l’innovazione può anche essere sostenibile, perché possono sperimentare di più”.

Domotica + illuminazione di design: la bulding automation a km zero

Dopo la discussione, ecco qualcosa di pratico e concreto riguardo all’applicazione della tecnologia al design. Un caso studio che viene dal territorio.

Eelectron è un’azienda di domotica con sede a Legnano, Panzeri produce lampade di design e illuminazione architetturale a Biassono. Sono lontane solo mezz’ora in auto, ma le due aziende non si conoscono. A presentarle ci pensa Gianmaria Paganini di The Zen Agency, sponsor di SingularityU Legnano Chapter, che ha ascoltato i bisogni di entrambe e li ha messi insieme.

Da una parte, Eelectron è abituata a fare cose che non si vedono, incassate e nascoste nei muri. Dall’altra, Panzeri ha bisogno di un partner che sappia esaltare la sua produzione totalmente Made in Italy, a km zero, e integrarla con le tecnologie di building automation per passare quindi dall’elettrico all’elettronico.

Così la lampada da tavolo Jackie di Panzeri è diventata, grazie alla tecnologia di Eeelectron, ‘Jackie IoT’, un oggetto capace di dialogare con il sistema di office automation ‘OTOMO’ dell’azienda legnanese.

Non volevamo alterare l’oggetto, un prodotto già minimal e dal design riconosciuto e pluripremiato. Electron però è riuscita a inserire dei sensori in uno spazio ridottissimo, usando sia la tecnologia Bluetooth sia un luxmetro, per interagire anche con la luce naturale” ricorda Federico Panzeri, Global Sales Manager della Panzeri Carlo Srl.

La lampada è diventata così protagonista dell’Internet delle cose: “Un oggetto visibile con a bordo dei sensori che permettono non solo di gestire l’ambiente (illuminazione, temperatura) ma anche di prevedere scenari in base alle specifiche persone (presenza e permanenza) che vi entrano” ha commentato Daniele Caso, amministratore delegato di Eelectron.

SingularityU Legnano Chapter: crediamo nella tecnologia esponenziale come strumento per la crescita del benessere delle persone. Agiamo in un contesto locale, ma parliamo di temi di interesse globale e formiamo comunità di pensatori che guardano al futuro, spinti dalla passione e dalla volontà di fare. Gli eventi che organizziamo riuniscono le persone per avere un impatto positivo, necessario per superare le grandi sfide dell’umanità.

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