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Fake News, l’altra pandemia

Ma è vero che la paura ci fa credere a tutto? Probabilmente sì! E così si diffonde un’altra epidemia, quella delle fake news.

L’informazione, online e non solo, deve essere curata, e per farlo servono investimenti.

Il rischio altrimenti è quello di produrre notizie in modo superficiale, non verificate, in due parole delle ‘fake news’.

La sfida è quella di riuscire a rendere virali i contenuti di qualità, non solo quelli frivoli e divertenti, come ad esempio i prank (cioè gli scherzi, le fesserie), o peggio ancora quelli falsi, creati ad hoc. Ci sto pensando perché ho letto un dato interessante del 2019: il post più condiviso della campagna elettorale americana, l’ultima, quella che ha portato alla sua prima presidenza Donald Trump, sapete qual è stato? “IL PAPA APPOGGIA DONALD TRUMP”, una palla totale, condivisa però, come vera, milioni di volte.

Il post più condiviso… Sconcertante, anche se ormai ci abbiamo quasi fatto l’abitudine, cosa ancora più pericolosa, perché vuol dire che non riusciamo più a distinguere il vero dal falso. Le fake news possono avere varie forme: video, messaggi inoltrati via WhatsApp, foto, articoli, citazioni di politici o sedicenti esperti.

Il tema preferito, in questo periodo, è il Coronavirus, cavalcato un po’ da tutti (youtuber, instagrammer, complottisti, anonimi e finti eroi). E proprio in questi giorni d’incertezza, il flusso di false notizie diventa incontrollabile e fa ancora più danni, perché di mezzo c’è la salute delle persone. Ad alimentare il flusso fake è la “condivisione” che scatta quasi inconsapevolmente.

Basta un titolo da clickbait, senza neanche aver letto il contenuto della news. Non ci chiediamo neanche se la fonte è attendibile.

Perché lo facciamo?

Una fake news non è mai banale, è sempre clamorosa. Chi la riceve ha la percezione di essere entrato in contatto con qualcosa che in pochi sanno. E da lì scatta il desiderio di condividerla. L’intenzione può essere positiva, se la notizia riguarda ad esempio il modo di non farsi contagiare dal nuovo virus, e quindi si sente il bisogno di dirlo ad amici e parenti; oppure negativa, quando si cerca di imporre la propria leadership e dimostrare che si sa più degli altri, che si ha accesso a fonti che gli altri non conoscono.

La tempestività di comunicazione su cui si basano i social network e le chat sono un terreno fertile per le fake news. È proprio la natura di queste piattaforme a deviare l’attenzione dall’accuratezza della notizia e il suo reale valore. La tentazione di condividere è così forte, che anche se l’intenzione è positiva, e non si vuole contribuire ad alimentare la disinformazione, ecco che si inciampa (“maleddetto share”). Essere critico e scettico nei confronti di un qualsiasi contenuto della comunicazione sarebbe l’atteggiamento più corretto da seguire. Ma questo ha un costo in termini di tempo, perché bisogna fare ricerche e verifiche. In molte situazioni troviamo più semplice crederci e basta, perché da un punto di vista cognitivo risulta più facile.

Il compito di smascherare le fake news, spetta ai giornalisti e ai divulgatori scientifici, ma nel frattempo queste bufale tendono a minare la credibilità di questi professionisti. Tra la condivisione di una notizia falsa e la sua smentita, passa del tempo e spesso è troppo tardi, eliminarla dalla testa delle persone diventa quasi impossibile.

Le fake news sono un esempio, inconsapevole, di una tecnica del marketing chiamata “ripetione”. Si tratta di un metodo di persuasione basato sulla ripetizione.

Ne abbiamo lette di ogni.

Dalla vitamina C al virus che rimane vivo sull’asfalto. Online si trovano tantissimi articoli che danno delle semplici regole su come difendersi dalle facke news, ma la raccomandazione rimane sempre una sola, e cioè quella di affidarsi a fonti ufficiali e autorevoli certificate.

È l’unico modo per non cadere vittime di fake news, informazioni scorrette che alimentano ansia ma sopratutto comportamenti scorretti e inadeguati capaci di compromettere il nostro senso critico, la capacità di distinguere i fatti dalle opinione e il vero dal falso.

Perché mi arrabbio se mi chiamano ‘Copy’

Ho grande rispetto per il lavoro di Copywriter, ed è per questo che non oso attribuirmi questa qualifica. Scrivo per lavoro e parte del mio lavoro è scrivere, ma il ruolo di Content Manager non è quello del Copywriter.

“Content manager? Ah, sei un Copy!”

Chi lo dice fa un torto sia ai Content Manager sia ai Copywriter, e probabilmente non se ne rende neanche conto. Il Copywriter può essere anche un Content Manager, ma non è detto che un Content Manager debba avere abilità di copywriting. L’equivoco nasce dal fatto che quando si parla di contenuti, ancora oggi la maggior parte delle persone pensa a dei testi, blog post, guest post o articoli da pubblicare da qualche parte. Il contenuto però può avere molte altre forme e formati: audio, video, grafica, un evento fisico, ecc.
Il Content Manager è colui che pensa a una strategia di contenuti in cui si stabiliscono gli obiettivi, individua l’oggetto della storia da raccontare (il ‘perché’ dell’azienda), studia le personas di riferimento, decide quali tipi di contenuti sono più adatti a queste personas e funzionali agli obiettivi, crea un piano editoriale, pubblica i contenuti, misura i risultati e poi eventualmente cambia la strategia e riparte nel suo processo.

Il Copy è al servizio del Content Manager, non il contrario

Per produrre contenuti, il Content Manager ha bisogno, quasi sempre, di uno o più Copywriter, a seconda del numero e degli argomenti da trattare (nessun copy è un tuttologo). Non solo, il Content Manager deve gestire un processo in cui possono essere coinvolti grafici, sviluppatori, specialisti SEO, social media manager e il team delle digital PR. Non è detto quindi che il Content Manager sia impegnato nella fase di produzione, può esserlo se è un Content Producer di qualche genere (testo, audio, video o grafica), altrimenti no.

Il Copywriter, invece, è coinvolto sempre, per produrre quasi ogni tipo di contenuto, dai classici testi per blog post e social, a quelli per le newletter, agli script per video e podcast. Il Content Manager ha un ruolo strategico prima che operativo, ed è proprio questo il punto: quante aziende che dicono di fare content marketing hanno una strategia documentata? Quante vanno oltre al semplice flusso di produzione di contenuti, spesso senza una direzione, che serve solo a popolare i canali digital e social?

È un po’ come sbagliare strada, tornare indietro è uno spreco di tempo e benzina

È qui che si perdono il ruolo e l’importanza di un Content Manager. Si bada solo a ‘fare’, pubblicare (soprattutto su social), senza pensare al ‘perché si fa’, qual è l’obiettivo. È un errore che può costare caro, perché per produrre contenuti servono tempo e risorse.

Concentrarsi sul ‘fare’ porta ad aver bisogno di chi i contenuti li sa creare, come il Copywriter, invece di chi sa pensare a un approccio strategico, come il Content Manager, che conosce un metodo, lo sa applicare e ne sa misurare e valutare i risultati, per poi eventualmente aggiustare il tiro. Per chi si occupa di contenuti è abbastanza deprimente vedere quanto sia bassa la considerazione che viene data alla fase strategica. Si parla tanto di content makerting, ma la strada per farlo in modo efficiente (nel modo giusto) ed efficace (che porta risultati) è ancora lunga.

Google Shopping: come vendere online anche senza essere online

Da puro servizio di comparazione a vero e proprio e-commerce diretto. La sfida ad Amazon&Co è lanciata.

Con un post sul proprio blog ufficiale, Google ha annunciato che i posizionamenti all’interno della scheda Google Shopping, precedentemente a pagamento, diventeranno gratuiti.

Chi vuole vendere online, anche senza un sito web, potrà scoprire un nuovo mondo dal quale cogliere svariate opportunità, per vendere i loro prodotti con minor sforzo possibile e con maggior efficienza.

Quali sono le novità?

Tra qualche mese, quando andremo a fare delle ricerche su Google Shopping, nella lista dei risultati la parte a pagamento avrà uno piccolo spazio, mentre quella gratuita sarà più estesa e vi si potrà entrare sia attraverso ulteriore pubblicità, sia con il posizionamento organico. Questo cambiamento è già attivo negli Stati Uniti (da fine aprile), ma si estenderà rapidamente in tutto il mondo, entro la fine di quest’anno.

Google sta anche sviluppando delle partnership particolari con:

  • Paypal (già attiva nel Merchant Center), per consentire ai commercianti di collegare i loro account. Ciò accelererà il processo di onboarding e garantirà la creazione di risultati di altissima qualità per gli utenti;
  • Altri sistemi per l’e-commerce, come Shopify, WooCommerce e BigCommerce (che possono essere collegati con il Merchant Center di Google): i prodotti caricati direttamente su Shopify, per esempio, possono essere abilitati alla ricerca versione gratis di Google Shopping.

Come funziona tutto il processo?

Se sei già un utente di Merchant Center e degli annunci Shopping Ads, non devi fare nulla per sfruttare gli elenchi gratuiti, il processo di adeguamento al nuovo sistema sarà automatico.

Una delle novità più interessanti è che il Merchant Center offre la possibilità di vendere senza avere un sito e-commerce, opzione disponibile per il momento solo in Francia e negli Stati Uniti. Non si dovrà fare altro che inviare il feed, meglio se supportato dalla SEO in relazione alle ricerche effettuate dagli utenti riguardo ai prodotti, al Merchant Center di Google, così da essere pubblicati in automatico sul tab Shopping.

Per i nuovi utenti di Merchant Center, invece, Google sta continuando a lavorare per semplificare il processo di onboarding nei prossimi mesi.

Quali vantaggi implica questo cambiamento?

  • Per i rivenditori, un’esposizione gratuita dei prodotti a milioni di persone che consultano ogni giorno Google per le loro esigenze di acquisto.
  • Per gli acquirenti, per confrontare più prodotti da più negozi, visibili tramite la scheda Google Shopping.
  • Per gli inserzionisti, le campagne a pagamento possono ora essere arricchite con elenchi gratuiti.

Cosa succederà in futuro?

Il catalogo di Google diventerà molto più ampio, perché, se prima Big G mostrava nel tab Shopping solo i prodotti dei suoi clienti di campagne Ads, a breve questa scheda non avrà più un spazio privilegiato per questi utenti e i loro prodotti.

In altre parole, è presumibile pensare che gli intenti di ricerca e la vendita dei prodotti si sposteranno dai più grandi Marketplace, come Amazon — e Walmart per gli USA — a Google Shopping, capace di intercettare le persone dall’inizio del loro percorso di acquisto, fin dalle ricerche transazionali e di comparazione dei prodotti sul proprio motore di ricerca.

Oltretutto, oggi l’interfaccia di Google Shopping, specialmente negli USA, è sempre più simile a quella di Amazon (ricerca, carrello, filtri, Adv in alto, listing in basso, review degli utenti, focus su domande più comuni, review dei tecnici, indicazioni di consegna, ecc.).

Quanto varrà la pena investire sull’e-commerce lato SEO?

Come abbiamo visto, Google è entrato ufficialmente nel mondo e-commerce e sta diventando un vero e proprio Personal Shopper: suggerisce qual è il miglior prezzo di un prodotto e dove costa meno, sia negli store online, sia in quelli offline, indicando il negozio più vicino per effettuare l’acquisto.

Tuttavia, è importante che un sito e-commerce metta sempre in pratica delle strategie SEO valide e aggiornate, in modo da soddisfare gli intenti di ricerca, ed essere così considerato da Google come una risorsa di valore per gli utenti.

Oggi si sta assistendo a un cambiamento, oltre che al mondo e-commerce, anche a quello delle ricerche dagli utenti: si tratta del “Machine Learning”.

Con Amazon Echo, Google Home, Alexa e altri assistenti vocali, le persone sono sempre più orientate a effettuare ricerche vocali, che si pianificano sotto forma di domanda, al posto delle parole chiave (per esempio: dove posso trovare una lavatrice?).

Perciò, è importante che un sito e-commerce soddisfi le esigenze degli utenti, investendo del tempo nella SEO, sia per ottimizzare le categorie e le schede prodotto, sia per:

  • raccontare il brand;
  • creare e mantenere viva la propria community;
  • sviluppare dei contenuti di qualità.

Ma come può farlo?

Attraverso il blog, un contenitore del sito che diventa estremamente rilevante:

  1. quando l’utente fa ricerche attraverso chiavi informative, che difficilmente si trovano tra le caratteristiche tecniche della scheda prodotto (per esempio “Come faccio a collegare la Webcam al Mac?”);
  2. quando l’utente fa ricerche con chiavi comparative: avere un blog può essere interessante per avere pagine dedicate ai confronti;
  3. per raccontare un prodotto sotto diversi punti di vista: attraverso dei video, podcast, recensioni, per poi poter essere condiviso su altri canali di comunicazione;
  4. per le offerte speciali, nel caso in cui l’e-commerce non abbia una pagina dedicata: il blog quindi può essere utile, perché si può utilizzare un linguaggio informale e diverso rispetto a quello utilizzato nella “pagina istituzionale”;
  5. per informare sulle tendenze di mercato: cosa sta piacendo o cosa potrebbe piacere alle persone;
  6. come ambiente di raccolta di risorse importanti (es. video tutorial, video corsi, ecc.).

Chiaramente la gestione di un blog e di un suo piano editoriale richiedono tempo e cura per riuscire a emergere nel motore di ricerca.

Altri aspetti, non meno importanti, da tenere in considerazione per una strategia SEO sono:

  1. rendere il sito e-commerce “Mobile First” e favorire un veloce caricamento delle pagine, poiché Google posiziona i siti che hanno una versione mobile ottimizzata;
  2. assicurarsi che il sito abbia il protocollo di sicurezza “https”;
  3. includere Rich Snippets e grafiche di riconoscimento: fornire una serie di dettagli a Google (es. prezzo, recensioni, disponibilità in negozio), in modo da essere considerati nei risultati organici.

Smart working e Covid-19: la crisi apre al futuro?

Lavoro agile e telelavoro: una volta passata la pandemia, non sarà più forte la voglia di tornare in ufficio?

A chiunque abbia bisogno di ottenere consenso e gradimento, se qualcosa non funziona e va storto, la scusa più semplice sembra sempre questa:

Con il diffondersi del Coronavirus, per cercare di contenere le probabilità di contagio e per la salute dei propri dipendenti, le aziende italiane, dietro consiglio e sollecitazione del Governo, si sono mobilitate e impegnate ad attivare dei sistemi di smart working, in Italia “lavoro agile”.

Il decreto n.6 del 23 febbraio 2020 emesso dal Governo, ha infatti previsto “la sospensione delle attività lavorative per le imprese, ad esclusione di quelle che erogano servizi essenziali, di pubblica utilità e di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare ossia dalla propria abitazione”.

La conseguenza è stata che molte realtà imprenditoriali hanno dovuto ripensare e riorganizzare il proprio assetto lavorativo adottando lo smart working come modello di lavoro. Tutto questo ha coinvolto circa 8,3 milioni di lavoratori.

In questi giorni i mass media hanno spesso parlato di smart working affiancandolo più volte al termine “telelavoro”. Ma smart working e telelavoro non sono sinonimi!

Esiste una vera e propria definizione di lavoro agile o smart working, data dal Ministero del Lavoro nel 2017:

“Il lavoro agile è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

Si parla di una tipologia di lavoro priva di vincoli che permette di lavorare ovunque, in qualsiasi luogo ci si trovi, anche da casa, senza una postazione fissa.

Anche gli orari sono flessibili e permettono di gestire il lavoro in autonomia, nel rispetto delle scadenze lavorative. È un’ottima soluzione per chi ha problemi nel raggiungere il luogo di lavoro o a seguire orari fissi, come può accadere, ad esempio, ai neo-genitori.

Non significa però che il dipendente in lavoro agile non abbia degli obblighi nei confronti dell’azienda. Deve infatti garantire la sua reperibilità e una tabella di marcia, condivisa con i suoi colleghi.

Nel telelavoro, invece, il lavoratore dipendente svolge la sua prestazione di lavoro non in un luogo qualunque esterno ai locali aziendali, ma in una postazione di lavoro esplicitamente definita nel contratto di assunzione (tipicamente da casa) e dotato di tutti gli strumenti necessari per lo svolgimento della prestazione (personal computer, tablet, ecc.). Gli orari di lavoro sono definiti nello stesso contratto e non possono essere modificati unilateralmente dal lavoratore. Infine, è previsto di norma un solo rientro a settimana nel posto di lavoro tradizionale.

Verso che forma di lavoro stiamo andando?

Comprendere la differenza tra smart working e telelavoro serve a capire se l’Italia si stia effettivamente muovendo verso lo smart working o se ciò che stiamo vivendo è soprattutto una forma diffusa di telelavoro.

Spesso, infatti, si tende a parlare impropriamente di smart working, privandolo della sua componente principale “smart” (lavorare senza nessun vincolo di spazio e di tempo) riducendolo al semplice “lavoro da casa”.

L’attuale emergenza sanitaria ha trasformato l’Italia in un paese connesso digitalmente. Adesso gran parte delle attività si svolgono a distanza, a partire da quelle lavorative fino ad arrivare alle lezioni scolastiche e universitarie.

Assistiamo a parrocchie che celebrano la messa in diretta su Instagram, a palestre che organizzano sessioni di training online, a enti di formazione che aprono gratuitamente l’accesso ai loro contenuti.

Queste sono tutte risposte di un paese che non si arrende di fronte al difficile momento storico che sta vivendo e che ritrova nella tecnologia lo strumento più efficace per affrontare l’isolamento forzato. E questo panorama si sta riflettendo anche sull’organizzazione del lavoro.

Se le imprese che seguono modelli di business decentrati hanno avuto meno difficoltà ad applicare o semplicemente a estendere lo smart working, così non è stato per le molte aziende figlie di una cultura organizzativa fondata sul presenzialismo. In linea generale, le aziende e le persone si sono dovute velocemente riorganizzare di fronte all’emergenza Coronavirus correndo il rischio di trovarsi impreparate a implementare e gestire in modo corretto lo smart working. Attivare un progetto di smart working richiede del tempo, mentre la situazione attuale ha obbligato persone e imprese a fare propri gli strumenti del lavoro agile nel modo più rapido.

La crisi apre al futuro?

Tutti gli addetti ai lavori sono convinti che, terminata l’emergenza, il numero dei lavoratori agili si attesterà su una cifra ben più alta di quella censita nell’ultimo autunno. Ma dopo settimane di distanza dai colleghi e con tutte le difficoltà del lavoro da casa, in un momento in cui sono chiuse le scuole e non sono possibili gli spostamenti, è probabile che molti vorranno tornare alla concretezza dei rapporti umani, della pausa caffè, della riunione organizzata al volo, relegando, erroneamente, il lavoro agile in una parentesi drammatica della propria esperienza.