Una delle tre aziende più ricche del mondo si è messa a fare formazione digitale e rilasciare qualcosa di molto simile a delle lauree.
Perché Google ha iniziato a fare formazione? Il motivo si potrebbe riassumere più o meno così:
“Care università, i ragazzi che escono dalle vostre scuole non sono pronti al mondo del lavoro. A noi di Google servono professionisti del mondo digitale di un certo tipo per l’attività che facciamo. Perciò, ci pensiamo noi a offrire dei percorsi formativi ad hoc, moderni, verticali (Data Analyst, Project Manager e UX Designer), veloci (non più di 6 mesi) ed economi (circa 300 dollari)”.
Ecco allora le lauree di Google e le università hanno iniziato subito a preoccuparsi per l’ingresso nel mondo dell’istruzione di un player così ricco e potente.
“Non vi preoccupare, non abbiamo intenzione di lanciare una nuova università” hanno tenuto a precisare da Mountain View.
Sarà, ma intanto le lauree di Google hanno scosso un ambiente, quello degli istituti universitari, che fatica a stare al passo coi tempi e a formare persone capaci di rispondere alle richieste delle aziende, soprattutto digitali.
Stando a Google, sul tavolo ci sono ‘solo’ competenze tecniche, almeno inizialmente, cioè come abbiamo detto Data Analyst, Project Manager e UX Designer.
Da tempo esiste però un altro corso specialistico realizzato dagli esperti di Google; riguarda il supporto IT e si può acquistare e frequentare online da tutto il mondo (ha già avuto più di 367mila iscritti).
Da molte parti continuiamo a sentir dire che saranno soprattutto le cosiddette soft skills a fare la differenza nelle professioni del futuro e che le competenze tecniche saranno sempre più prerogativa delle macchine, ogni anno più evolute e più potenti.
Esempi di soft skills sono la capacità di lavorare in gruppo, la creatività, la proattività o la resilienza. Chi dobbiamo aspettarci che si occuperà di formare nei nostri giovani questo tipo di intelligenza ‘emotiva’? Forse Google? Facebook? Amazon?
Qualche giorno fa, appena sotto la barra di ricerca di Google è comparso un link che portava al sito di un una nuova iniziativa di educazione digitale dell’azienda americana: Interland.
“Aiutiamo i più giovani a diventare cittadini digitali responsabili”.
Nulla di sbagliato, ma è giusto che sia Google a occuparsi di educazione digitale? Parliamo di un’azienda che offre un servizio che usiamo (quasi) tutti, ma che si basa sul tracciamento di dati e abitudini personali con tecniche che spesso violano la privacy delle persone.
Il potere che ormai certe aziende sono in grado di esercitare fa paura se lo pensiamo applicato anche al mondo dell’istruzione o dell’educazione.
Forse è il momento di aprire una seria discussione a riguardo, sia come società civile che come mondo imprenditoriale.
Parlando di formazione professionale, se le istituzione tradizionali non sono in grado di prendere in mano la situazione e di fare da guida, allora dovrebbero essere le aziende stesse, digitali e non, a proporsi come protagoniste anche nel campo dell’insegnamento di competenze e del cosiddetto mindset, quella che una volta si chiamava molto semplicemente ‘mentalità’.
Le aziende sono fatte di persone, non sono entità astratte, sono fatte di uomini e donne. È giusto che si preoccupino del presente e del futuro, riscoprendo quel ruolo di utilità sociale del fare impresa che forse si è un po’ perso.
Non importa la dimensione, ogni azienda può fare la sua parte.
La nostra agenzia di comunicazione, ad esempio, è impegnata nell’organizzazione di eventi dedicati al cambiamento, professionale e individuale, e nella divulgazione delle opportunità di progresso collettivo che stanno portando le tecnologie esponenziali, attraverso la sponsorizzazione di Singularity University Legnano Chapter.
Sono temi che la pandemia da Covid-19 ha rilanciato ulteriormente come prioritari nella nostra vita.
Scendi in campo come individuo e come professionista, come fanno i relatori dei nostri eventi che raccontano esempi di disruptions, ribellione e percorsi fuori dagli schemi.
Anche in questo come nel business, sono le start-up e le piccole e medie imprese che possono segnare la via verso l’innovazione.
Non aspettiamo che siano i grandi player a prendersi questo spazio, rischiamo un’ingerenza in questioni che hanno un valore pubblico e sociale troppo importante.
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