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_ La Disruption: o torniamo sul palco o ci muoio

LA DISRUPTION SECONDO I DISRUPTORS: O TORNIAMO SUL PALCO O CI MUOIO

di Ciccio Rigoli

Ho cominciato a fare spettacoli seriamente nel 2001. Per la prima serata di cabaret dei Mensana (ai tempi in trio) ci pagarono 150mila lire totali. Diviso 3, 50mila lire a testa. Ero felicissimo, avevo cominciato a fare spettacoli. Da lì non ho più smesso.

Credo che in ormai 19 anni non sia passato un mese consecutivo senza mai fare almeno un’esibizione, un laboratorio, un reading, insomma, non mi metto a contarle le volte che sono stato sul palco perché farei notte. Facciamo almeno 50 volte sul palco l’anno moltiplicato per 19? Fa 980 volte, più o meno. Quasi mille esibizioni di vario tipo, quindi diciamo che stare sul palco mi piace. Dal momento in cui mi si attorciglia lo stomaco e spero che annullino la serata per non dovermi esibire (giuro, ho spesso sperato annullassero la serata per la paura di esibirmi), fino al momento in cui scendo dal palco solitamente sudato ed esausto.

E, adesso, mi manca tutto. Anche la colite spastica del pomeriggio prima dell’esibizione.

In teatro non viene ammesso il viola perché il viola, nella liturgia cattolica, è il colore della Quaresima. E, durante la Quaresima, ovvero i 40 giorni prima della Pasqua, gli attori non potevano esibirsi e facevano la fame. Roba medievale, pensavamo. Figurati se tornerà una Quaresima in cui non potremo più esibirci, anche in tempo di guerra i teatri erano aperti per allietare le truppe. Fino a due mesi fa pensavamo questo, o meglio, non ci pensavamo neanche perché era un’ipotesi troppo remota.

Poi, ‘sto cazzo di virus nemico delle nostre abitudini e anche di quelli che stanno sul palco a dire, cantare, ballare, far ridere la gente.

Da quasi due mesi sono chiusi tutti i locali, i teatri, le balere, ogni spazio. E se almeno durante la Quaresima si sapeva quando sarebbe finita, qua non se ne vede la fine. E ogni giorno che passa è sempre peggio, perché pare che tutti si siano dimenticati del mondo della cultura e dello spettacolo. Siamo solo carne da streaming, ormai.

I primi giorni, quando si chiuse tutto, partirono i proclami. Nessuno sarà abbandonato! Nessuno perderà il lavoro! L’Italia è la Patria della Cultura e la difenderemo!

Sì, il cazzo. La Patria della Cultura il cazzo.

Tempo due settimane e nessuno si ricordava già più di quelli che andavano a fare gli spettacoli, buttavano il sangue per fare le prove, per organizzare tutto sperando che la gente ci venisse, andavano dietro ai gestori dei locali per esibirsi.

Nessuno si ricorda dei gestori dei locali che provavano a fare spettacoli e a garantire il pagamento agli artisti a costo di rimetterci del loro.
Nessuno si ricorda di quelli che gestiscono i teatri indipendenti e fanno i miracoli per pagare tutti, per mettere in piedi un cartellone degno, che fanno dei corsi, che ci vivono davvero con la cultura, con lo spettacolo, con il loro mestiere che in troppi sbeffeggiano pensando che si stia a fare le scenette, la recita, le musichine.

Ci sono persone dietro al divertimento, che mettono il pubblico e lo spettacolo davanti a tutto, e che se non salgono su quel palco ci muoiono. Perché stare sul palco è una delle peggiori paure al mondo ma, per chi ha il coraggio di farlo, è soprattutto la cosa più bella del mondo.
L’unica risposta che è arrivata è quella della “piattaforma di streaming”. Che è come dire che se non possiamo fare l’amore possiamo pur sempre farci le pugnette davanti a PornHub Premium, tanto è gratis, no? Il risultato è lo stesso, no?

Beh, se vi accontentate delle pugnette, va pure bene. Ma non venitemi a dire che è amore.

Stiamo continuando a esibirci nell’unico modo che abbiamo, lo streaming, ma non è per niente la stessa cosa. Lo streaming è solo un surrogato dello spettacolo. Dobbiamo guardare le persone, modulare la voce, sudare, buttare di nuovo il sangue. E se non si può fare adesso, va bene, aspetteremo, ma non venitemi a dire sempre e soltanto che ci sono cose più importanti. Probabilmente costruire tubi e montare automobili rende di più, ma non per questo dovremmo stare zitti e buoni che tanto noi ci divertiamo a fare quel lavoro, che tanto noi possiamo anche stare senza pensieri, visto che campiamo d’arte.
Qua servono soluzioni, e in fretta, sennò alla ripresa ve le potete scordare le risate che vi siete fatti a vedere qualcuno sul palco. Perché, se questo è il modo in cui si viene dimenticati, tanto vale fare un altro mestiere e rassegnarsi a non salirci più, su quel palco.

C’è una data almeno indicativa in cui potremo tornare a esibirci? C’è un piano per non far crollare tutto o esistono solo quei 600 euro che chissà se torneranno e che comunque non bastano?

Avete una minima idea di come fare a salvare chi non sa quando potrà tornare a fare il suo mestiere mentre voi parlate solo del tornare a lavorare intendendo come lavoro la metalmeccanica e il manifatturiero? Avete intenzione di dircelo prima o poi? Ci avete mai pensato? Qua, come direbbe qualcuno, “sembra che l’unico che fa uno sforzo per evitare di menarvi sono io!”

Io voglio sapere quando potrò tornare su quel palco. Altrimenti ci muoio. E vogliono saperlo tanti altri che, come me, altrimenti ci muoiono. Lo spettacolo è stato il primo settore a chiudere, e sarà l’ultimo a riaprire. Sempre se esisterà ancora qualcuno che vorrà tornare a esibirsi alla fine di questa quarantena, dopo aver visto esattamente ancora una volta quanto non importi a nessuno della condizione di chi fa questo mestiere.

Egidio Alagia

Egidio Alagia

Event Manager