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Gamification, psicologia e cambiamento individuale per rompere gli schemi

For Disruptors Only torna per fare il punto su cosa ne sarà di tutti noi dopo il lockdown.

Cosa ne sarà del marketing? Cosa ne sarà dei vecchi modelli di business? Svaniranno o troveranno il coraggio di cambiare? E soprattutto, cosa ne sarà di noi? Abbiamo parlato, infatti, anche di persone.

Dalla sede di WeWork in via San Marco, a Milano, abbiamo parlato di Disruption da punti di vista diversi, nello stile di ‘For Disruptors Only”.

Il divertimento e il gioco nel marketing

Il gioco può essere considerato, e usato, come forma di disruption? Grande appassionato di matematica, Riccardo Bovetti (Partner, EY) è partito dalla teoria dei giochi di Arrow e Sen, un importante esempio di matematica applicata che studia e analizza le decisioni individuali di un soggetto in situazioni di conflitto con altri soggetti rivali.

Il gioco inizia ad avvicinarsi al mondo del digitale nel 1978, quando nascono i digital games. Da quel momento c’è stata un’evoluzione nelle console, con l’aumento del numero dei titoli disponibili sono aumentate anche le opzioni di gioco possibili. Di fatto, i giochi elettronici sono dei precursori dell’intelligenza artificiale.

digital games hanno caratterizzato la nuova solitaria postura dell’uomo, abbiamo iniziato a giocare contro noi stessi e contro il computer.

Prima, il momento del gioco digitale era “staccato” dalla vita reale, distacco che però è diventato sempre più sfumato quando le tecnologie si evolvono fino ad arrivare a quelle che conosciamo oggi.

Bovetti associa il portare il gioco all’interno della vita quotidiana alla trans diegetica, ossia il portare all’interno del contesto narrativo degli elementi che sarebbero destinati a stare fuori.

“La tecnologia digitale abilita una trans diegesi pervasiva in quello che facciamo ogni giorno, ha la capacità di portare all’interno dello spazio digitale informazioni che esistevano ma che non erano destinate a quel contesto”.

Un esempio di questo processo sono le prestazioni atletiche rilevate dalle app degli smartphone.

Il gioco viene applicato al marketing con la Gamification, elementi e tecniche di gioco (come la competizione con gli altri e la score keeping) usate in situazioni ludiche. La finalità è quella di influenzare il comportamento dei consumatori, dei dipendenti di un’azienda, o altri gruppi di persone che partecipano al ‘gioco’, per promuovere un comportamento, motivando e ricompensando le azioni in linea con un determinato obiettivo.

Le tecniche per far vendere di più

Chiara Bacilieri studia tecniche psicologiche per spingere il consumatore a prendere una decisione, tecniche nudging.

Un esempio di nudging (“spinta gentile”) è il posizionamento: uno studio ha evidenziato come un ristorante che voleva vendere più insalata, mettendo i piatti di insalata nella parte sinistra del menu otteneva una risultato di vendita del 58%, mentre mettendola sulla parte destra arrivava solo al 29%.

In Messico, per spingere la gente ad acquistare frutta e verdura, è stato modificato il carrello della spesa mettendoci all’interno un cartello con scritto “frutta e verdura qua”, creando uno spazio apposito per frutta e verdura. Questo ha fatto crescere la vendita del 102%.

È dimostrato, quindi, che queste tecniche servono per spingere le persone a prendere decisioni che il venditore vuole far prendere, ma, come in questi casi, portano anche benefici per il cliente finale (tecniche ‘good nudge’).

Esistono anche tecniche ‘bad nudge’, come il puntare sull’acquisto di impulso nel momento in cui le persone sono distratte e abbassano le difese.

Quando si trovano in cassa ad attendere il proprio turno, quello è il luogo dell’attesa, in cui le persone acquistano impulsivamente e dove si possono applicare le bad nudge” ha spiegato Chiara.

Ora, però, le vendite dei prodotti alle casse sono calate, perché? Per ingannare l’attesa alle casse le persone utilizzano lo smartphone.

“Abbiamo avuto un boom di digital commerce. Però il digitale e la pandemia da Covid-19 non aiutano all’acquisto di impulso, che rappresenta il 70% degli acquisti e il piacere di fare shopping. L’acquisto online, invece, rappresenta solo gli acquisti di utilità”.

Con la digitalizzazione, e il cambiamento che ha portato, le tecniche di marketing che fanno leva sull’acquisto di impulso non saranno più efficaci. Stiamo quindi vivendo un momento di rottura, il consumatore sta cambiando e le aziende devono trovare altre tecniche di marketing, non possono più puntare sui nudge.

Le tecniche di marketing dovranno essere legate più a una reale offerta, quindi è necessario sofisticare l’e-commerce? Il commercio elettronico non è in grado di stimolare l’acquisto di impulso, dovrebbe cercare di colmare questo gap di esperienza emozionale.

Il gap tra shopping fisico e digitale è composto proprio dall’esperienza e dall’empatia.

L’e-commerce è caratterizzato da efficienza, raggiunge un maggior numero di persone ma ha una minor efficacia comunicativa.

Quello che fa Chiara con la sua azienda Neosperience è proprio quello di colmare questo gap, attraverso l’incontro tra tecnologia e psicologia legata al marketing. Lo scopo è personalizzare l’esperienza con dati sulla psicologia, avvicinandola alle capacità tecnologiche.

Come cavarsela bene oggi?

Sebastiano Zanolli ha lavorato in aziende come Diesel, Adidas, 55DSL, OTB, dove si occupava di motivazione personale e per il personale, marketing e vendite. Oggi fa lo scrittore che si concentra sugli individui.

Ha parlato di cambiamento e di come sia semplice, di come basti cambiare il ruolo, da cocchiere si diventa tassista. Ma se sei un cavallo, dopo il cambiamento non servi più. Le persone o rimangono rilevanti o diventano inutili, perché piano piano il mondo cambia e l’individuo deve cambiare con esso.

Esempio di cambiamento: passaggio da codice a barre al QR code. Con il codice a barre, quando non va il laser, l’individuo può digitare il codice; con il QR code, le persone sono irrilevanti, possono leggerlo solo scansionandolo con un device.

Sebastiano ha sottolineato il concetto di ‘tecnologia delle idee’, quello in cui bisogna concentrarsi sulle soluzioni, soprattutto se vogliamo parlare di cambiamento, resistenza e sopravvivenza.

Se pensi che la tua povertà sia volere di Dio, allora preghi. Se pensi che la tua povertà sia il risultato della tua inadeguatezza, ti ritiri nella disperazione. E se pensi che la povertà sia frutto dell’oppressione e del dominio altrui, allora fai una rivolta”.

Il peso di un rischio non dipende dalle probabilità che un evento si verifichi, ma dalle conseguenze sui nostri progetti e sulle nostre vite. I rischi non si contano ma si pesano, dobbiamo pensare a che rischi corriamo e che peso hanno sulla nostra vita.

La vita reale è diversa dalla teoria e dal regno della pubblicità, dove tutto ciò che non è bello viene tolto. Le pubblicità mostrano spesso cose non veritiere e che non rappresentano la realtà, ma sono proprio queste fantasie a far leva sul consumatore e sul suo desiderio di acquisto.

Sebastiano ha spiegato come l’individuo dovrebbe ragionare e non abboccare a tutto.

Il cambiamento per lui sarebbe portare a casa progetti senza essere disonesti.

“La pubblicità? È come portare un bimbo in un posto pieno di caramelle dicendogli di non mangiarle. Sai che le mangerà, quindi stai vincendo facilmente, così come quando usi le tecniche nudge. Sarebbe giusto portare un adulto in questo posto, una persona consapevole che non si fa incantare dalla prima pubblicità che passa. L’individuo quindi deve essere consapevole dell’esistenza di queste tecniche”.

Non sono le informazioni che ci mancano, sono le storie che raccontiamo (e alle quali crediamo) che sono deboli”.

Avere alternative è sinonimo di dignità, libertà e serenità”.

Le fate, i guru e il nostro cervello ci fregano continuamente. Le fate dicono: non so come ma cadrai in piedi; i guru danno algoritmi chiari: fai così e sarai soddisfatto, sei strumentale al loro interesse. Le persone non devono farsi ipnotizzare da tutto quello che vedono, ad esempio allo storytelling, da individuo si deve ‘denarrare’ per capire.

Per toglierci questi atteggiamenti auto sabotatori, e vivere bene in questi tempi, dovremmo usare delle tecniche come ‘viaggiare nel tempo’, o la ‘oggi, domani, dopodomani’ (10 giorni 10 mesi 10 anni), ossia capire quali sarebbero le conseguenze delle scelte fatte per i nostri progetti in un orizzonte temporale di lungo periodo. In questo modo le decisioni diventano più virtuose.

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Le 11 regole del garage che sono ancora così attuali

Parlando di disruption da circa un paio d’anni (o meglio, ascoltandola dai relatori che ho coinvolto) non potevo lasciar cadere la richiesta di un collega: “aspetto un tuo articolo per il blog dell’agenzia”.

La richiesta lui direbbe che sia ormai abbondantemente caduta visto che risale a qualche settimana… ehm… mese fa.

Però è anche vero che da terra si può sempre raccogliere qualsiasi cosa e che per scrivere serve ispirazione. Serve a quelli bravi, immagina a uno come me, che solitamente non scrive articoli. Stavo per scrivere “che non scrive di mestiere”, ma non sarebbe stato corretto considerando i tempi che corrono proprio per quello di cui sto per parlare, lo scoprirai dopo.

Magnus Carlsen, scacchista norvegese, una volta disse che: “non puoi limitarti ad applicare quello che leggi sui libri, da gestire ci sono sempre e soltanto eccezioni”.

Perché parlare di disruption?

Non è corretto dire che stiamo vivendo un cambiamento.

Siamo sommersi da ricerche che ci dicono che le soft skills come problem solving, pensiero critico, creatività, empatia, coordinamento sono diventate fondamentali per il mercato del lavoro (non importanti eh, fondamentali), che nel 2030 ben due terzi dei posti di lavoro sarà soft-skills-intensive (le più importanti, comunicazione e teamwork), che molti degli studenti di oggi faranno un lavoro che oggi non esiste.

Se è vero tutto questo, non possiamo dire di vivere un cambiamento. È più corretto dire che il cambiamento è diventato il nuovo modello di vita.

La disruption non è un qualcosa che accade e che precede un nuovo status-quo, è diventata lo status-quo.

Allora perché è così difficile per l’essere umano cambiare?

Di base, siamo esseri abitudinari. Non è colpa nostra, siamo nati così.

È la nostra natura. La natura però ci insegna che non è mai sopravvissuto chi è più forte, ma chi è stato più reattivo ai cambiameti.

Se dovessi decidere quale skill tra tutte, tenere in cima a un’ipotetica torre, non avrei nessun dubbio: la capacità di essere disposti a mettere tutto, continuamente, in discussione.

La disruption ha una forza prorompente sia nella veste di un grande cambiamento culturale che può muovere la passione di milioni di persone, sia nella drammaticità di una pandemia che nella sua agghiacciante trasversalità obbliga tutti a riconsiderare le priorità della propria vita.

Come si devono comportare le aziende?

Strategia. Sperimentazione. Esecuzione. Ripartire da capo.

Quando tutto cambia, non esistono manuali da consultare o istruzioni per l’uso.

Nuovi modelli di leadership, un lavoro fluido sempre più in interazione con mondi nuovi come la robotica o l’intelligenza artificiale, nuove economie e diverse percezioni dei luoghi di lavoro. Come possiamo affrontare tutto questo?

Si parte sempre dalla strategia, senza un “punto B” da raggiungere non si ha una meta, senza una meta si gira a vuoto. E visto che non siamo su una spiaggia, “girare a vuoto” non genera valore. Andare a braccio non è sperimentare, per quello serve una strategia, altrimenti non si genera valore.

Per sperimentare, serve strategia. La sperimentazione senza strategia ha un nome: improvvisazione.

Un’impresa che non genera valore, non è definibile tale ed è destinata a scomparire.

Non ti darò ricette per il successo perché non ne ho, non ne conosco. Quello che farò, è darti un consiglio: da dove partire.

Partirei da un foglio A4, all’interno del quale andare a scrivere le 11 REGOLE DEL GARAGE (+ 3 consigli) che è possibile che tu abbia già letto da qualche parte. Attacca questo foglio sulla porta di ingresso della tua azienda, in una sala riunioni, sulla scrivania, ma leggilo tutti i giorni. Perché sono state scritte nel 1941, ma sono incredibilmente attuali.

Il garage a cui fanno riferimento non è il mio, ma è quello nel quale è nata la Hewlett-Packard, motivo per il quale a questo garage si fa riferimento come il luogo da cui è nata la Silicon Valley californiana (nel mio ci ritiro l’auto).

I 3 consigli sono miei, quindi non li troverai da nessun’altra parte, dovrai arrivare alla fine dell’articolo.

1. Believe you can change the world

Tu puoi cambiare il mondo. E se tu puoi cambiare il mondo anche le aziende, che vivono e prosperano grazie agli esseri umani dei quali sono composte, possono cambiare il mondo.

Elon Musk proverebbe a convincerti così per lavorare da lui:

Helping humanity fight global warming and pollution with electric cars and solar panels, and colonize space”.

Wow.

Le aziende del futuro non parlano (solo) con i numeri, parlano del loro scopo. E fanno bene chiacchierando con la Generazione Z, alla ricerca di mentori prima che di manager.

2. Work quickly, keep the tools unlocked, work whenever

Tre parole: stare sul pezzo.

Non viviamo nell’era della velocità, il futurismo è passato, siamo nell’era dell’accelerazione.

Imparate continuatamente, lasciatevi contagiare da tutto quello che vi circonda, pronti a usare le competenze acquisite al momento giusto.

3. Know when to work alone and when to work together

Sono convinto che chi sa lavorare in armonia con le altre persone, sappia lavorare bene anche individualmente. Se non sai lavorare in team, quasi sicuramente non servi o non servirai (punto successivo).

4. Share tools, ideas. Trust your colleagues

I grandi risultati si raggiungono solo insieme, perché l’unione può generare sinergia (1+1+1+1 = 6), l’individualismo (1 = 1) non può, per definizione.

L’individuo esce sempre sconfitto dal confronto con un team di persone che cooperano.

Le aziende possono generare valore solo dalla collaborazione degli individui che la compongono. Un grande individualista, un talento anarchico può generare risultati che saranno all’interno di un range compreso tra “risultati effimeri di breve periodo” e “danni gravi all’organizzazione”.

Ogni team, infatti, va alla velocità del più lento. Non alla velocità media, o del leader, ma del più lento.

Qui entra in gioco una duplice responsabilità: da parte del management di formare le persone, farle crescere, definire obiettivi e misurare le performance raggiunte. Da parte di chi entra in un’azienda assumersi responsabilità, aiutare un collega, remare insieme per ottenere risultati non saranno più temi da bonus di fine mese, ma il minimo garantito per permettere alla propria organizzazione di competere in un mercato del lavoro sempre più complesso.

Ditemi che cosa fare e io lo faccio”, lo dice un robot antropomorfo.

Per ora almeno, perché con l’Intelligenza Artificiale sta cambiando anche questo. Alle persone è chiesto di più.

5. No politics. No bureaucracy (these are ridiculous in a garage)

Se politica e burocrazia erano dannose anche in un garage nel 1941, davvero serve spiegare perché non porterebbero a nulla di buono in un’organizzazione moderna?

6. The customer defines a job well done

Il cliente ha sempre ragione. Se non ti piace detto così, prova con: “è il mercato che deciderà se la vostra azienda genera abbastanza valore”.

Ci sono due tipi di startup: quelle che partono da una grande idea del loro founder (ne trovate poche, dopo i famosi primi tre anni) e quelle che nascono per rispondere a un’esigenza del mercato di riferimento. Le seconde le riconosci, generano ricavi.

7. Radical ideas are not bad ideas

Ci sono i piccoli miglioramenti quotidiani, poi ci sono le grandi idee.

La ruota non si riesce a inventarla tutti i giorni, ma non farti spaventare da quanto un’idea possa essere fuori dagli schemi.

Non chiederti solo perché un’idea dovrebbe funzionare, chiediti piuttosto: perché non dovrebbe farlo?

8. Invent different ways of working

Tutti i paradigmi connessi al mondo del lavoro stanno mutando: luoghi, modalità, misurazione delle performance

Una parola, non traducibile, lo spiega in modo perfetto: smart.

Se le persone sono messe nelle condizioni di lavorare in armonia, lavorano duro.

9. Make a contribution every day; if it doesn’t contribute, it doesn’t leave the garage

Piccoli progressi quotidiani: fai in modo che la persona che esce la sera dall’ufficio sia migliore della versione che è entrata la mattina.

Tanti piccoli miglioramenti quotidiani possono generare grandi idee se condivisi. Ricordi il discorso delle sinergie, vero?

10. Believe that together we can do anything

Una sfida che può spaventarvi singolarmente impallidisce davanti alla forza di un team.

Se hai una grande idea, ma non sai come farla funzionare non proteggerla egoisticamente: un tuo collega potrebbe essere il pezzo del puzzle mancante per ottenere un grande risultato.

E un domani quel pezzo potresti essere tu: si vince insieme, si perde singolarmente.

11. Invent

Nessuna Università insegna a diventare inventori: prova a farlo divertendoti quotidianamente.

Mai come oggi è possibile fare delle vostre passioni una nuova startup.

Qui finiscono le 11 REGOLE DEL GARAGE, se sei arrivato fino a qui credo sia giusto lasciarti anche i miei 3 consigli da aggiungere a queste regole.

(Consiglio) 1: Save the rebels

Sicuramente conoscerai un ribelle, e se è vero quello che disse Ruth Messinger: “non sono i ribelli a creare i problemi, ma i problemi a creare a i ribelli” faresti meglio a tenertelo stretto nella tua azienda.

Essere ribelle non significa per forza essere un antagonista. Spesso si tratta di un tipo di talento che è indicatore di una forza divergente senza limiti, che mette continuamente in discussione la situazione e non smette di interrogarsi sul come migliorarla.

Leggete qualche biografia dei grandi imprenditori e manager: non erano persone facili, anzi.

(Consiglio) 2: Kill the gap

Uomini e donne hanno sfumature diverse, differenti metodi per arrivare a una soluzione, per approcciare un problema.

Non esiste un metodo migliore di un altro: questo è il bello.

Viviamo un mondo del lavoro caratterizzato da sfide complesse, e la complessità si può affrontare solo percorrendo insieme la strada.

Il vergognoso gap nel mondo del lavoro tra uomini e donne deve finire, e questo deve finire con un’educazione che deve partire dalle scuole, dove si formano — prima che uomini e donne — persone.

Qual è il suono di una sola mano che applaude?

Eliminare il gap non per fare un favore alle donne, come se fosse una concessione, ma per sprigionare quel talento oggi purtroppo ancora ingabbiato in assurdi schemi mentali ereditati da mentalità cancellate dalla storia.

Oggi sappiamo che questa è un’esigenza delle donne, raggiungere la parità di genere.

Se mai dovessimo raggiungerla ci renderemo conto di quanto di questo ne avevamo bisogno tutti, per rendere le nostre aziende più competitive e, soprattutto, eque.

(Consiglio) 3: Next generation leadership

Un consiglio ai leader. Non agli imprenditori, o ai manager. Ai leader. Perché tutti possiamo trovarci nel ruolo di leader, anche semplicemente aiutando un collega in difficoltà o in un momento di debolezza.

Oggi la leadership in azienda non si manifesta nell’essere i migliori nel fare qualcosa, ma nell’essere capaci di attrarre i migliori talenti in circolazione e integrarli nella propria organizzazione.

Dopo l’ennesimo trionfo in vasca di Michael Phelps, LeBron James postò su Twitter una foto, accompagnata dalla frase: “winners focus on winning, losers focus on winners”.

https://www.instagram.com/p/BI8Rtk2Bn-P/?utm_source=ig_web_copy_link

I vincenti si concentrano sulla vittoria, i perdenti si concentrano sui vincenti.

Lo sguardo di Phelps rivolto verso il traguardo, lo sguardo del suo avversario rivolto verso Phelps.

Per affrontare quello che succederà, poche regole ma chiare: concentrati su dove vuoi arrivare, definisci una strategia per farlo, fai crescere il tuo team, affidati alla magia del lavoro di squadra e lasciati sorprendere.

Una ragazza controlla il suo smartphone

Newsletter a pagamento e lo speciale rapporto con gli iscritti

C’è una domanda che, casualmente, mi è capitata sotto gli occhi più volte in questi ultimi giorni: per quanti servizi online a pagamento c’è posto? Quanti abbonamenti una persona è disposta a sottoscrivere (e si può permettere)?

Un commento a un video sul lancio di un nuovo servizio a pagamento (Quibi), parlava di un modo molto pragmatico di affrontare la questione:

“La maggior parte delle piattaforme, come Netflix, DAZN, Disney+, mi permette di disdire quando voglio. Così, scelgo quella che mi interessa in quel momento, poi disdico e passo a un’altra”.

Forse un po’ scomoda come soluzione, ma ha il suo perché dal punto di vista dell’utente. Per chi invece questi servizi li vuole vendere, la questione è più complessa.

Nuove idee di prodotti online

La grande offerta di servizi che seguono un modello a sottoscrizione mensile è arrivata forse a un punto di saturazione, almeno per quelli che si rivolgono al consumatore finale.

Alla ricerca di qualcosa di nuovo ci si sta guardando intorno e, come succede quasi sempre, anche indietro. Si sta rivalutando uno degli stumenti di comunicazione digitale più vecchi, ma mai tramontati: la newsletter.

Il modello: il magnete in questo caso è la ‘normale’ newsletter che si manda alla propria lista di iscritti. Il ‘magnete’ è quel contenuto gratuito che ti aiuta a costruire una lista di persone interessate a un argomento che ha a che fare con qualcosa che vuoi vendere.

Prima di fare un’offerta commerciale, a freddo, il percorso prevede di costruire un pubblico di potenzialmente interessato, la lista appunto, e sviluppare una relazione: chi crea contenuti interessanti si guadagna la fiducia di chi li ha ‘assaggiati’ e che ha chiesto di continuare a riceverne iscrivendosi alla newsletter.

La letteratura del web marketing dice che è molto più facile vendere qualcosa a una lista qualificata con cui inizi un dialogo sulla base di contenuti gratuiti e utili, senza chiedere nulla in cambio se non dopo aver consolidato questo rapporto.

Succede così anche nella vita: difficile poter baciare una ragazza al primo appuntamento. Prima ci si conosce un po’ per capire, reciprocamente, se c’è il giusto feeling.

La newsletter è speciale

La newletter esce un po’ dalla logica del classico magnete, perché di per sé ha già un valore di relazione intrinseco. Chi si iscrive, accetta di ricevere quel genere di contenuti, secondo una certa frequenza periodica, nella propria casella di posta.

Ci tiene, non vuole che quel messaggio si perda nel flusso infinito e caotico dei feed dei social network. Così lo può leggere quando vuole, tanto è al sicuro nella propria mail.

La gente è disposta a pagare per ricevere una newsletter? Sembrerebbe di sì, se è vero che è un modello che si sta diffondendo e che entra in competizione con i vari servizi di cui si paga un abbonamento mensile.

La forte relazione su cui si basa la newsletter è indipendente dall’algoritmo dei motori di ricerca e questo è un vantaggio e, in parte, anche uno svantaggio. È un vantaggio perché le logiche per acquisire iscritti sono diverse da quelle che regolano la SEO e i risultati di Google, non c’è lo stesso affollamento; è uno svantaggio perché trovare newsletter a cui iscriversi non è come cercare un sito web, non esiste a oggi un motore di ricerca delle newsletter.

Il modello partecipativo

La potenza dello strumento newsletter sta però soprattutto nella qualità della relazione che si crea con chi la riceve. La marketing automation, fatta di funnel e mail inviate in automatico per arrivare a un’offerta commerciale, per quanto i testi possano essere efficaci e le proposte allettanti, non ha la stessa capacità di stabilire un rapporto di lungo periodo.

Mi hanno affasciato molto dei casi basati proprio, in partenza, su una ‘normale’ newsletter, gratuita, che poi sono articolati in altri contenuti, come per esempio un podcast e un libro, sostenuti da donazioni volontarie. Chi crea il contenuto offre tutto gratuitamente, almeno all’inizio, incassa l’apprezzamento di quello che offre e incrementa il numero di iscritti alla sua lista. Poi, chiede di sostenere il progetto con contributi di vario genere, una tantum, ricorsivi o comprando il proprio libro.

I numeri di alcuni di questi esempi sono sorprendenti, non sono noti o pubblici, ma la complessità e la qualità dei contenuti prodotti lascia pensare che il ritorno sia importante. Parliamo di fondi che riescono a pagare delle produzioni professionali e viaggi oltreoceano piuttosto frequenti, come nel caso di Francesco Costa e il suo ‘Da Costa a Costa’.

Un modello partecipativo che dà un messaggio un importante: in un momento in cui i giornali hanno deciso di chiudere al modello gratuito delle news online, ci sono molte persone che sono disposte a pagare per un certo tipo di contenuti informativi, molto meno caotici e generalisti, ma verticali e di qualità, curati e personali. Un rapporto che più che uno (il content creator) a tanti (gli iscritti) sembra più ‘uno a uno’, senza mediazioni, né della testata giornalistica né dell’algoritmo.

Le aziende ci credono nel valore della newsletter?

Forse è proprio questo tipo di relazione che rende intramontabile e speciale la newsletter. Tuttavia, le aziende spesso sottovalutano questo potere, ancora di più oggi che il GDPR impone delle attenzioni in più alla qualità della lista e alla gestione dei dati personali.

Eppure la newsletter rimane uno dei pilastri del business online. È un asset proprietario che non dipende da piattaforme terze, che permette una relazione più diretta con un pubblico qualificato e che si aspetta, in cambio dei propri di dati, di ricevere sempre contenuti di valore.

Cosa può insegnarci l’esempio di Quibi

Anche solo pensare di competere con Netflix e Amazon Prime può sembrare una follia, invece c’è chi ha accettato questa missione impossibile.

Si chiama Quibi la nuova app per smarphone dove tutto dura solo 10 minuti. Si tratta di un servizio di video streaming on demand in cui tutto è diviso in capitoli della durata di circa 10 minuti.

Quibi va incontro alla velocità di consumo dei contenuti che c’è oggi e si propone come alternativa ai colossi del video streaming, compreso YouTube, per riempire quei momenti in cui magari hai solo qualche minuto a disposizione e vuoi essere intrattenuto.

Bocconcini veloci. Grandi storie

Non so se Quibi avrà successo con i suoi ‘Quick bytes. Grandi storie’, ma quello che mi piace di questo progetto è il mondo in cui è stato pensato. Prima di tutto l’ascolto, il tentativo di rispondere a un’esigenza: la persone hanno poco tempo, vogliono contenuti brevi e di qualità che sono disposti a pagare, secondo Quibi.

Per chi non vuole perdersi a cercare, per esempio su YouTube, qualcosa che fa al caso suo per vederlo in quei pochi minuti, Quibi offre film e serie tv a puntate da 10 minuti, oppure l’informazione autorevole targata BBC, NBC News o ESPN e produzioni originali e nuove, ogni giorno, sempre nel formato di ‘veloci bocconcini’.

I video di Quibi sono ottimizzati per lo smartphone, si possono vedere passando dalla visualizzazione orizzontale a quella verticale a pieno schermo, un altro elemento testimonia l’attenzione all’esperienza dell’utente e alla fluidità di utilizzo.

Film, serie e video da un altro punto di vista

Un servizio come quello proposto da Quibi mi fa ha fatto ripensare a quante cose si possono fare partendo dallo stesso contenuto, le produzioni video in questo caso.

I film sono gli stessi contenuti offerti da piattaforme come Netflix, Prime e molte altre, ma nessuno aveva mai pensato di dividerli in capitoli brevi o di standardizzare le produzioni video in durate prefissate (circa 10 minuti), cosa che invece aveva fatto Twitter con la lunghezza dei testi dei suoi post (i famosi 140 caratteri).

La questione non è se il format di Quibi sarà apprezzato o meno dal pubblico, ma piuttosto che non serve per forza cercare l’idea inedita, che nessuno ha ancora avuto, perché è molto difficile trovare qualcosa di assolutamente nuovo.

Facebook è stato il primo esempio di social network, imitandolo e copiando molte delle sue caratteristiche ne sono nati moltissimi altri. Instragram ha dato il là ai canali social principalmente fotografici e nativi mobile, molti lo hanno imitato e si sono proposti a nicchie diverse, ritagliandosi il proprio spazio e cercando di rubarne agli altri.

Un contenuto non balla per una sera soltanto

Un contenuto, così come un’idea, può essere ripreso, modificato, migliorato e riproposto più e più volte.

Testi, grafiche, video, audio… In generale tutto quello che hai prodotto e per cui hai speso fatica e risorse, non vive una volta sola. Non fermarti a una semplice pubblicazione social, ma pensa a come riproporlo da altri punti di vista (come ha fatto Quibi con film e serie tv), magari a distanza di tempo, sia nel caso ti abbia dato dei buoni risultati (seo, lead generation, traffico, interazioni), sia che non abbiamo funzionato.

Se ha funzionato, hai un buon motivo per riusarlo e dargli altre oppurtinità di fare il suo dovere. Se non ha funzionato, puoi provare altre strade, formati e testi, puoi fare dei test, ma non lasciare che il risultato dei tuoi sforzi viva solo per poche ore. Merita almeno un altro ballo.