Esiste un profilo del fottuto genio?
Ne abbiamo parlato a FDO tra tecnologia e iniziative di Disruption, scoprendo che la genialità può essere ricercata e promossa con un modello di caratteristiche.
Torniamo a incontrarci di persona. Col nuovo appuntamento della serie For Disruptors Only (FDO) torniamo a far discutere i nostri relatori e il pubblico presente. Poche persone, e distanziate, ovviamente, che sono intervenute da WeWork a Milano per ascoltare storie di genio e sregolatezza, sempre dirette a innovare e a creare una rottura, positiva, all’ordinario appiattimento.
Introduction to Disruption, di Riccardo Bovetti (EY)
“Il genio è la accurata capacità di tenere celate le proprie fonti”.
Albert Einstein
Nel presentare l’argomento di questa sera, non mi sono fermato all’associazione tra innovazione e cambiamento. L’innovazione è qualcosa che esiste, concretamente, non è solo cambiamento e miglioramento, cioè una variazione di tipo qualitativo. Non è vero che per fare qualcosa di nuovo serve sempre a cambiare.
Innovazione e cambiamento possono essere conseguenti, ma anche derivare una dall’altro.
A volte l’innovazione è stata pensata molto prima della sua attuazione, ma mancavano ancora le condizioni per poterla realizzare in concreto.
Necessarietà dell’innovazione: è buona di per sé? Siamo portati a pensare che abbia a che fare con la velocità del cambiamento. Quello che ci sconvolge è l’accelerazione che ci può portare a uno stravolgimento del nostro quotidiano.
Creare il futuro con l’Intelligenza Artificiale, di Fabio Moioli (Microsoft)
In Cina un algoritmo di intelligenza artificiale parla al telefono, scrive poesie e conduce 18 trasmissioni radiofoniche in contemporanea. L’Intelligenza Artificiale (AI) è già nei nostri telefoni. In Olanda un algoritmo ha creato un nuovo dipinto che gli esperti hanno ammesso che avrebbero potuto scambiare con un’opera autentica di Rembrandt.
23 anni fa un computer ha battuto il campione di scacchi, nel 2016 ha vinto contro il campione del complesso (triliardi di combinazioni) gioco ‘Go’ e da quell’anno in poi si è raggiunta la parità uomo macchina in diversi campi: comprensione del testo, traduzione dal cinese alle lingue occidentali e altro ancora.
In quali campi si può usare la AI per sviluppare il genio? È come chiedere cosa si può fare con l’elettricità: creare il futuro. Purtroppo molti usano la AI ‘solo’ per fare le cose un po’ meglio.
La sfida più grande che dobbiamo affrontare è il re-skilling, forse come società stiamo sottostimando questo aspetto.
Siamo passati da un mondo in cui facevamo fatica a farci capire dalle macchine, a un mondo in cui parliamo alle macchine, senza usare interfacce complicate come una volta.
La AI va usata per creare il futuro, in modo geniale. Una delle sue utilità più importanti è quella che permette di prendere decisioni migliori facendo previsioni (marketing e tanto altro).
Il futuro? L’Intelligenza Artificiale sta crescendo da poco, solo ora ci sono la potenza di calcolo, la quantità di dati e gli algoritmi per poter far crescere il processo.
Quello che ci aspetta oltre questo gradino è il Quantum Computing, si potranno processare in secondi algoritmi che con ad oggi richiederebbero un tempo superiore alla vita dell’universo.
Sono preoccupato? Dell’uomo, sì, di come potrebbe usare tutto questo in modo sbagliato.
Il miglior modo di predire il futuro è crearlo.
Dobbiamo ricordarci che nel corso dell’evoluzione quello che ci ha resi vincenti come specie è la collaborazione, senza di questo ci saremmo estinti. Secondo me la collaborazione è essenziale anche tra uomo e macchina.
L’AI sta diventando sempre più complementare all’uomo. Per esempio, un esame medico controllato dall’algoritmo e dal medico ci può dare il risultato migliore, la migliore diagnosi.
Uomo e macchina sono complementari e sinergici. Potremo sì prendere decisioni migliori e sempre più importanti, aumenteremo la nostra intelligenza, ma questa tecnologia non potrà amplificare i nostri valori, i nostri principi etici, quelli in base ai quali la useremo.
Al centro quindi rimarrà la nostra parte più umana, la più bella, quella che determinerà maggiormente il futuro, più che la tecnologia di per sé.
Chiara Bacilieri: ragioniamo sempre su cosa la tecnologia può fare meglio di noi, ma Fabio ci ha fatto vedere questo rapporto in modo diverso. Dobbiamo chiederci come ci può aiutare, non come ci può superare. Dal punto di vista della capacità umane (relazione, empatia, ecc.), pensi che l’AI ci possa aiutare?
Fabio Moioli: quando si tratta di decisioni importanti, quelle che impattano sulla vita delle persone, penso che la decisione debba sempre essere presa da un essere umano. L’algoritmo ci può dare dei suggerimenti, ma dobbiamo essere noi a decidere se siamo d’accordo o meno su quel suggerimento.
L’AI non è giusta, è efficiente. L’algoritmo usato per fare selezione del personale, in occidente imparerebbe ad assumere solo uomini bianchi, perché si rifà sui dati storici dell’azienda. Altri esempi di questo tipo sono nel campo dell’applicazione della legge, o nella scelta di concessione dei mutui, ecc.
L’algoritmo può provare empatia, avere una coscienza? Oggi no, tra anni, molti anni, forse sì. Oggi possono simulare empatia. Può essere efficiente nel rispondere in modo empatico, sa simulare, ma non è giusto, non ha vera empatia. I principi restano di dominio umano.
La rivoluzione della birra artigianale, di Teo Musso (Baladin)
Io parlo di cose più materiche dall’AI. Sono un ragazzo di campagna, vengo da un paese di 900 abitanti. 34 anni fa ho fatto qualcosa di molto diverso da quello a cui era abituato il mio paese, che è molto vicino a Barolo e Barbaresco, terre di grandi vigneti.
Invece del vino, la birra. 34 anni fa ho aperto un locale dedicato a birra e musica. Ho iniziato a importare birre e ha funzionato bene, grazie alla passione e alla musica. Io e mia moglie abbiamo fondato una scuola di musica per disabile e una per gli ‘apparentemente’ abili, ho avuto un’etichetta discografica e fatto il tour manager.
Il mio percorso più importante però ha riguardato la birra. Nel 1995 ho iniziato a produrla, cosa che in Italia non si faceva. All’inizio non ha funzionato, la gente guardava con diffidenza alla birra artigianale, ho perso l’80% dei miei clienti.
La birra artigianale era una vera rivoluzione culturale, qualcosa che ha creato diecimila posti di lavoro negli ultimi 6 anni, non male per un paese come l’Italia.
Dopo il primo fallimento, la riflessione, semplice, è stata: stavo producendo delle birre profumate, ma fino al giorno prima le birre si bevevano in apnea, perché puzzavano ed erano tristi. Ho pensato allora di rivolgermi e portare questo messaggio agli appassionati di vino, che fino ad allora consideravano la birra un sottoprodotto.
Così ho rivoluzionato il mercato, ho creato una nuova immagine, usando delle bottiglie che sembravano di champagne per la birra, con etichette originali e fuori dagli schemi. Ho selezionato 500 ristoranti in tutta Italia e sono andato a portare le mie birre artigianali.
La risposta è stata positiva, un po’ di ristoranti hanno cominciato a usare le miei prime due birre e soprattutto qualche giornale ha cominciato a scrivere che:
“C’è un matto che sta girando per l’Italia dicendo che si può sostituire il vino con la birra”.
Poi è arrivata la tv: Uno Mattina, TG Leonardo, ecc. E la gente ha cominciato a tornare nel mio locale e sono andato avanti nella mia rivoluzione.
Nel 2000, sono passato dalla produzione dentro il locale a fare una cantina di fermentazione e imbottigliamento nel pollaio dei miei genitori, cosa che mi ha causato qualche ‘piccolo’ problema burocratico con l’ufficio tecnico del comune.
Tra il 2000 e il 2004 ho creato una società di distribuzione, perché a quel punto era diventato indispensabile per avvicinare la mia birra artigianale al cliente finale. Oggi, arriva il prodotto arriva in 54 paesi nel mondo.
Nel 2005 mi hanno dato un premio per aver portato la cultura della birra nel mondo, ma nonostante questo l’Italia ha scoperto la birra artigianale solo nel 2011.
Questo premio mi ha dato una botta di energia. Ho creato un marchio concorrente solo per stimolare il mercato; poi ho disegno un bicchiere che è diventato un simbolo di questa rivoluzione (oggi ne vendiamo 2 milioni l’anno), che ha ridato dignità alla birra e allo stesso tempo è un bicchiere tecnico di degustazione.
La birra è un prodotto che dipende dalla terra ma ne è slegato, perché i birrifici industriali comprano le materie prime dal mercato, anche e soprattutto estero. Negli ultimi 15 anni ho lavorato sulla filiera della birra, iniziando la coltivazione del luppolo e producendo la prima birra 100% italiana, con soli ingredienti italiani.
Noi che produciamo alimenti, abbiamo un rapporto intimo con le persone, perché entriamo nel loro corpo, a volte ce lo dimentichiamo. Continuo a sperare che siano gli uomini, con le loro passioni, a fare dei prodotti che mi entrano dentro.
Massimo Temporelli (F****ing Genius)
Nel 2017, non c’era la cultura del podcast. Pochi li ascoltavano, pochi li producevano, la maggior parte erano trasposizioni integrali delle trasmissioni radiofoniche.
‘Storie libere’ mi propose di raccontare storie di divulgazione scientifica scritte apposta per il podcast. Il pubblico era acerbo, volevano che mi occupassi di contenuti scientifici e mi hanno dato carta bianca.
Ho pensato di raccontare le storie delle persone che per me hanno cambiato il mondo; idea di per sé banale, ma che ho messo in pratica con uno stile e un piglio particolare. È nato così F****ing Genius e il fatto che sulla scienza ci fosse poco e che il consumo di podcast fosse in crescita, mi ha portato ad avere numeri importanti di ascolto e download.
Idea, titolo e copertina, i testi e tipo di canale, hanno contato molto in questo successo secondo me. Questo insieme di elementi magici non capita spesso nella vita, ma si sono verificati tutti insieme.
Il podcast F****ing Genius è stato pensato per i giovanissimi, con l’obiettivo di ispirare e sfruttare la conoscenza e i potenti strumenti di oggi per diventare ‘fottutamente geni’ e andarsi a prendere il mondo.
Ne è nato poi un libro che è nato dal podcast e hanno cominciato a invitarmi nelle università e nei festival per parlarne.
Dopo essere stato tappato come tutti per il lockdown, avevo una gran voglia di andare in bicicletta. Così, mi è venuta l’idea del Book Bike Tour. Perché? Volevo che la scienza fosse raccontata da chi la vive da dentro.
Non ho mai fatto ciclismo da strada, su lunghi percorsi, sono quindi partito come parte uno scienziato, per fare di questo viaggio una metafora di quello che fanno gli innovatori da sempre: esplorare.
Ho fatto tutto da solo, ho organizzato il percorso, ho contattato gli scienziati e gli innovatori che avrei incontrato lungo la strada, ho comunicato l’iniziativa e mi sono allenato tutti i giorni per diverse settimane.
Sapevo che partivo per una cosa che non avevo mai fatto e che mi metteva un po’ in pericolo, però in questa metafora volevo che emergessero le caratteristiche che devono avere i fottuti geni. Non c’entra niente con il talento e la genialità, ha a che fare con la resistenza, la capacità di resistere alla fatica.
Non esiste il genio isolato, oltre alla fatica e all’esplorazione serve la collettività, il contesto che ci sta intorno, le persone che ci circondano. Questo Tour era un modo per cucire insieme tutte le mie relazioni, da Milano alla Sicilia.
La genialità? Bisogna esplorare, uscire dalla zona di comodo e nutrirsi di relazioni e stimoli.
Cosa mi porto da questa esperienza? Per esempio aver fatto Prato-Firenze, circa 30 km, in bicicletta insieme a Mario Cipollini, l’ex grande campione di ciclismo.
Fare il compitino, senza esagerare mai, ci sta rovinando. Non sto parlando di presunzione, ma di cercare di andare oltre i propri limiti.
Il talento per me è equidistribuito, non è vero che gli americani hanno più talento degli italiani o viceversa. Dove emerge il talento? Dove ci sono delle caratteristiche propedeutiche ed è proprio questa la domanda che viene fuori da eventi come questo: come posso io imprenditore creare le condizioni per far emergere il talento delle persone che lavorano per me? La stessa domanda se la dovrebbero fare le nazioni, le università, ecc.
Dobbiamo rispondere adesso e cercare un modello da applicare e replicare.
Se diversi giovani hanno scelto di studiare in una certa direzione perché ispirati da quello che hanno letto nel mio libro, ho fatto la mia piccola parte per creare un humus positivo.
Chiara Bacilieri: immaginiamo di fare ogni giorno qualcosa che ci fa paura e che non abbiamo mai fatto. ‘Io sono fatto così’ è un motivo per non muoverci dalla nostra zona di comfort. Se però cambiamo il contesto, una caratteristica che forse non conoscevi di te può venir fuori. Esiste un profilo del fottuto genio?
Massimo: La gioventù è fondamentale. Io ho 47 anni e il mio cervello è cristallizzato, per questo le persone mature e anziane hanno un compito: promuovere i giovani. La storia ce lo dice, le grandi idee sono frutto di menti giovani, di solito under 25.
Chiara: dobbiamo anche creare una cultura del fallimento, perché provare cose nuove vuol dire fallire la maggior parte delle volte.
Massimo: e dagli errori possono nascere storie molto belle, altrimenti impossibili.
Come nasce un’idea? Tavola rotonda con il Gruppo Giovani Imprenditori di Assolombarda
Chiara: secondo le fasi aziendali di Michael Watkins (STARS: start-up, turn around, acceleration and growth, realignment, sustaining success), un manager è adatto, per sue predisposizioni, a solo una, massimo due di queste fasi.
Come nascono le idee nelle fasi che voi rappresentate?
Alan Torrisi (Primis Group): in Italia la Disruption paga poco, le giovani start-up sono viste come acerbe e con timore. L’età media degli imprenditori è alta, perciò guardano con diffidenza ai giovani che propongono di cambiare lo status quo.
L’accelerazione va affrontata per step, non può essere secca e troppo forte, c’è una zona di resistenza. Così bisogna puntare invece a una zona di accettazione, in modo più tattico.
Angelica Peretti (Duing): siamo giovani, ma abbiamo lavorato all’estero per una grossa azienda come Unilever. Grazie a questa esperienza abbiamo capito di cosa hanno bisogno un certo tipo di imprese. Questi insights ci hanno portato a pensare e poi a realizzare un progetto come Digitazon, cioè un marketplace di giovani dotati di competenze al servizio delle aziende.
Marzia Chiesa (SODAI): i miei fallimenti sono stati degli ottimi punti di ripartenza. Venivo da una formazione molto diversa dai temi che poi ho affrontato, sono arrivata nell’azienda di famiglia in un contesto di settore maschilista e vecchio. Ho iniziato a lavorare sulla sostenibilità come motivo e strumento di business, in un mondo che parlava ancora poco di questo argomento.
Puntare sull’economia circolare, sulla sostenibilità anche interna all’azienda, ha pagato, anche se all’inizio sembrava un azzardo. Noi innoviamo continuamente, l’innovazione deve diventare cultura. Dopo dei problemi di percorso, l’azienda ora è arrivata un buon punto evolutivo.
Per uscire dalla mia comfort zone, sto creando un blog in cui mi racconto come donna, come mamma e come imprenditrice per diffondere la sostenibilità come modo di pensare.