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Il collo di una bottiglia in dettaglio, sullo scaffale

Cambiare negozio poco prima del lockdown e… aumentare le vendite

Un negozio locale che cambia per crescere durante il lockdown: wow!

Guardare avanti nonostante il momento difficile è una qualità da imprenditori, poi a volte ci si mette il caso. Sei hai un negozio fisico e prendi la decisione di spostarti una nuova sede poco prima che il paese sia sconvolto da una pandemia… te la prendi col caso.

Vendendo vini e regalistica enogastronomica, fino alle birre artigianali, le porte del negozio, dopo il trasloco, e durante il lockdown, sono rimaste aperte. L’attività dell’Enoteca Longo di Legnano non si è mai fermata, così come lo spirito d’iniziativa.

A Longo i clienti affezionati non sono mai mancati, è un negozio storico (1961 l’anno di apertura) ma non per questo i fratelli Paola, Giovanni e Osvaldo Longo si sono mai seduti o accontentati.

Spostarsi in via Lega (angolo via Giolitti) è stato un modo di avvicinarsi alla gente e di modernizzare la location sul modello dei grandi negozi stranieri, con i prodotti esposti su nove vetrine.

Ma far crescere il business non vuol dire solo avere un negozio più grande, ma anche provare nuove strade, mai percorse prima.

La strategia? Pensare ai clienti

Cosa vogliono le persone a cui piace il vino? Un’esperienza di acquisto online rinnovata, più moderna e semplice; comprare i prodotti da remoto e riceverli a casa; acquistare online e ritirare comodamente in negozio, perché le bottiglie di vino hanno sempre il loro fascino e non è male avere una scusa per passare in enoteca.

Longo ha pensato a cosa vogliono i suoi clienti e ha messo in pratica tutte queste cose, partendo da un nuovo sito web.

Chi lo dice che vino, birra e alcolici, per via della bottiglia di vetro, non si possono spedire a casa?

L’Enoteca Longo ha aperto il nuovo sito online con il meglio della sua offerta commerciale di vini ma non solo: è ricco di etichette vinicole, anche internazionali, e una vasta gamma di specialità gastronomiche.

Il mercato così si è allargato anche a chi non è di Legnano. Ricevi a casa oppure ritiri in negozio e ti godi un’esposizione ricca di bottiglie prestigiose.

Longo ha anche un servizio delivery, utile ora e utilissimo per i clienti durante la quarantena.

E a supportare l’attività commerciale, ci sono anche i contenuti informativi e la newsletter.

Visione, strategia e concretezza: la storia del progetto Enoteca Longo è tutto questo, con i bisogni del cliente sempre al centro.

Leggi come lo raccontano sui media locali.

Cosa puoi imparare dal caso Longo:

  • A non farsi prendere dal panico, a guardare avanti sia quando le cose vanno bene sia quando vanno male
  • A pensare sempre a nuovi modi di soddisfare i proprio clienti e andare incontro ai loro bisogni
  • A non affidarsi solo alle vendite fisiche, anche se il business è ben avviato e consolidato

Il caso dell’Enoteca Longo è un esempio di come una piccola azienda possa avere al suo interno un motore imprenditoriale sempre teso all’innovazione, che però ha bisogno del giusto partner sia per la tecnologia sia per la strategia digital.

Vendere online non è più una scelta. Hai già un sito e-commerce? Funziona? Contattaci per una consulenza.

SingularityU Legnano al Salone del Lavoro e delle Professioni

SingularityU Legnano tra i protagonisti del Salone del Lavoro e delle Professioni, con il workshop: “Tecnologie esponenziali per carriere esponenziali” insieme a Francesca Porzio, Egidio Alagia e Maurizio Carminati.

Siamo nell’era delle tecnologie esponenziali. Gordon Moore lo aveva detto nel 1965 e Raymond Kurzweil lo ha ribadito nel 2001. Ma cosa significa esattamente? Semplificando significa che l’innovazione tecnologica si evolve in un modo talmente rapido da subire una crescita non doppia, non quadrupla, ma elevata alla “n” potenza.

Negli ultimi decenni con l’arrivo del digital, dei big data, del machine learning, dell’intelligenza artificiale ciò si è incrementato ancor di più. Le industrie e le aziende, di conseguenza, ne hanno tratto beneficio e hanno cambiato il loro modo di lavorare e di produrre.

Ma non si tratta solo di un semplice cambiamento tecnologico quanto più di una rivoluzione. Le rivoluzioni però non arrivano in punta di piedi e chiedendo gentilmente permesso, ma ti travolgono in modo impattante. Sono dirompenti e inevitabili. Per non soccombere e lasciarsi travolgere passivamente, bisogna prima accettarle e poi stare al passo, e anzi, cavalcarne l’onda.  

Ma in concreto cosa possiamo fare per affrontare questa rivoluzione esponenziale?

Quella attuale è certamente una rivoluzione tecnologica ma, per riuscire a prenderla di petto, dobbiamo saperci rivoluzionare anche mentalmente e culturalmente.

Il punto sta quindi nel mindset. Cambiare la propria attitudine, l’insieme delle credenze, il modo di pensare, per poi riuscire a trasformare anche le azioni e i comportamenti. È fondamentale l’approccio. Bisogna essere aperti, preparati, dinamici, smart e proattivi. Essere pronti a innovarsi e rinnovarsi.

Per fare questo salto di qualità mentale possono essere utili “Le 11 regole del Garage di Hawlett-Packard”. Fondamentali, se volete creare qualcosa di straordinario e innovativo. Non sono dei consigli pratici su come dar vita concretamente a un progetto, ma riguardano più l’attitudine e, appunto, il mindset giusto da avere. Se non conoscete queste regole, vi consiglio di spendere un paio di minuti per leggerle, potrebbero essere illuminanti e far scaturire qualche idea brillante.

Solo quando riusciamo a fare questo cambiamento nella nostra mentalità e nei nostri comportamenti quotidiani più comuni possiamo poi trasferirlo al nostro modo di lavorare.

Bisogna tenere presente però che esiste una correlazione tra uomo e macchina. Anzi, a dire il vero, è l’uomo l’elemento da cui parte l’input e la macchina è solo lo strumento che esegue gli ordini. L’idea quindi parte sempre dalla mente umana e si concretizza poi grazie ai macchinari. L’uomo è quel mix tra creatività, intelletto, formazione, e tecnica; la macchina invece possiede soltanto l’ultima di queste caratteristiche. La macchina può essere uno strumento efficientissimo in fatto di esecuzione e performance ma non potrà mai eguagliare gli umani circa le idee. Proprio per questo le tecnologie non potranno mai sostituire il lavoro umano, ma possono essere usate soltanto a nostro vantaggio.

Come quanto detto, le tecnologie avanzano in modo esponenziale. Noi, oltre a rivoluzionare il mindset, cos’altro possiamo fare per avere una carriera altrettanto esponenziale?

Continuare ad apprendere. Infatti, sia all’inizio della nostra carriera lavorativa, sia immersi in un ambiente consolidato, sia che si tratti di un settore tecnico, sia di uno più creativo, è comunque attraverso l’apprendimento continuo che riusciamo a stare al passo con il progredire rapido e incessante della realtà.

Silicon Valley, colori, startup, cibo: Shift Happens

Mercoledì alle 5 di pomeriggio. Appuntamento fisso.

Luogo: una stanza. Non fisica ma su Clubhouse.

Con Shift Happens Egidio Alagia e Maria Beatrice Benvenuti hanno parlato di tante tematiche con tanti ospiti differenti. Riassumiamo qui il nostro primo mese sul nuovo social del momento.

Silicon Valley? Distanza più fisica che mentale.

Sappiamo tutti dove si trova la Silicon Valley. In California. Una terra calda e soleggiata. Ma non soltanto per il clima, spesso infatti è l’incubatrice ideale per le più grandi idee. 

Una di queste grandi idee è nata dalla testa di Roberto Bonzio. Proprio lì Roberto ha creato “Italiani di Frontiera”, una community che racchiude italiani espatriati in California. Imprenditori, scienziati, studenti arrivati in America per inseguire il loro sogno a stelle e strisce. Niente vite sotto ai riflettori e carriere hollywoodiane però. Questi talenti si impegnano per sviluppare le loro idee innovative e per migliorare il futuro.

Nella foto: Roberto Bonzio

Un esempio? Chiara Schettino. 19 anni, ancora teenager, ma con una mentalità imprenditoriale spiccata e una carriera già avviata.  In California ha fondato la sua startup in ambito agritech e in Italia ha continuato sulla stessa scia sviluppando una piattaforma di challenge digitali per ragazzi.

Mi chiedo perchè la California sia la terra sognata da molti. La risposta me la fornisce proprio Chiara: “In Silicon Valley c’è una luce diversa”. E con questo non intende il sole battente 365 giorni all’anno. Potremmo tradurla come la luce del progresso. Chi vive lì pensa al futuro, abbraccia il futuro, e con esso quindi anche le innovazioni che comporta. Chi vive lì ti insegna a ragionare su come arrivare preparati, anzi, a creare il futuro. Tutti quelli che mettono piede in Silicon Valley dovrebbero farsi illuminare da tale luce.

Sindrome del Palio di Siena 

La domanda sorge spontanea: perché in Italia non si riesce a far nascere progetti e si fatica a fondare delle startup? Gli italiani sono affetti dalla “Sindrome del Palio di Siena”. No tranquilli, niente di letale, ma può essere allo stesso tempo contagiosa. Il neologismo è stato coniato proprio da Roberto. 

Chi è affetto da tale sindrome cerca appositamente di ostacolare gli altri nella loro missione. In Italia non si punta quindi sull’unire le forze per raggiungere un obiettivo comune, ma al contrario si sviluppa una conflittualità e una rivalità tale da godere nel vedere gli altri fallire. In poche parole ognuno pensa al proprio orto, e anzi, cerca di buttare del diserbante su quello altrui.

Questione di mindset

Bisogna superare questa visione egoistica, lavorare in team ma soprattutto avere un cambio di mentalità. La parola chiave quindi per riuscire a raggiungere i propri obiettivi è mindset. Sì lo so, l’hai sentita in tutte le salse, ma il punto sta proprio qui. Mindset è pensare in modo positivo, è puntare all’obiettivo con la convinzione di farcela, è avere la voglia di affrontare nuove sfide, è avere un atteggiamento che accoglie il cambiamento.

La differenza tra gli americani e gli italiani sta proprio in questo: mentre i primi puntano al futuro cercando soluzioni per migliorarlo, i secondi stanno ancorati al passato. Noi italiani (e qui mi ci metto anche io, a volte) siamo conservatori, rimaniamo legati ai valori del passato, che per carità, sono più che nobili, ma diventano una zavorra nel momento in cui il mondo si sviluppa e progredisce. È quindi arrivata l’ora di superare il modo di pensare del: “va bene perché abbiamo sempre fatto così”. Bisogna invece pensare a nuove idee che puntino allo sviluppo.

E per fare questo cambio di mentalità bisogna partire dalle basi, dagli albori, cioè dalla scuola.

Giustissimo conoscere la storia dell’antico Egitto, la vita dei più grandi poeti del Romanticismo, la tavola periodica degli elementi, ma siamo sicuri che tutte queste informazioni siano sempre utili nella vita quotidiana? La scuola italiana ti infarcisce di nozioni teoriche spesso poco spendibili nella vita reale perché è impegnata a seguire alla lettera programmi vecchi e “prestampati”. Si perde di vista così l’elemento centrale sul quale bisognerebbe puntare il focus, ossia i ragazzi e la loro crescita.

I ragazzi non sono dei contenitori da riempire ma piante da innaffiare. È un po’ la sintesi del pensiero di una grandissima (ndr) donna Maria Montessori. Il suo metodo educa i bambini seguendo la loro naturale inclinazione di crescita e si basa su valori di autocostruzione, cooperazione. Insomma, una scuola di pensiero lontana anni luce dalla classica scuola italiana.

Punta alle stelle

Quindi, capite bene, che con queste premesse è difficile far nascere in Italia una qualsiasi idea che vada controcorrente a quelle della maggioranza. È arrivato però il momento di evolversi o almeno di restare al passo con la realtà. Per farlo sicuramente bisogna uscire dai binari già delineati, uscire dalla comfort zone e aprirsi a nuovi scenari. Avere il coraggio di rischiare, saper togliere i freni e dare il via al talento. Non è detto che sia “buona la prima”, ma anche dai fallimenti si impara, no?

E per dare forma a nuovi progetti non necessariamente bisogna andare in Silicon Valley, anzi, tanto meglio se qui in Italia.

Comunicare a colori.

Potremmo mai vivere in un mondo privo di colori? Ovviamente no. E in un mondo senza comunicare? Nemmeno. Ecco, proviamo a unire le due cose e diamo vita alla combo perfetta.

Ospite di questa stanza è Alessandra Boaro, esperta di armocromia, consulente di moda e fondatrice di “Style for Success”. Dietro ai colori si cela un mondo e lei è pronta a svelarci ogni segreto.

Nella foto: Alessandra Boaro

Red passion

I colori sono in grado di influenzare i nostri stati d’animo e di farci provare emozioni specifiche agendo sia a livello conscio che inconscio.

Partiamo subito da un esempio: prendiamo il rosso (avete colto la citazione del sottotitolo vero?).

Sicuramente a questo colore associamo parole come forza, passione, energia, potere. Quando viene indossato (basta anche solo un piccolo particolare come una sciarpa, un rossetto o una pochette da taschino) subito risultiamo più sicuri di noi stessi ed esprimiamo un carattere forte e deciso. Tale colore è in grado di far provare un senso di calore e accoglienza, pensiamo alle stanze di una casa: degli oggetti di design rossi rendono subito l’ambiente più confortevole ed accogliente.

Ciò accade perché tale colore è in grado di farci provare sensazioni come quelle elencate sopra.

Allo stesso tempo chi si trova di fronte può provare un senso di paura o un leggero assoggettamento.

Questo lo sa bene Maria (arbitro di rugby e una delle voci di Shift Happens). Ci spiega infatti come la squadra che indossa una maglia rossa venga vista come più forte dall’avversaria e di conseguenza è più portata a vincere.

Nella foto: Maria Beatrice Benvenuti

Ogni colore dunque agisce in modo più o meno conscio su di noi, ognuno è in grado infatti di influenzare i nostri stati d’animo e le nostre sensazioni.

Colori maschili e colori femminili

Esiste una grande differenza tra colori reali e colori percepiti.

O meglio: è diverso il modo in cui chiamiamo i colori. E questa differenza è maggiore tra uomini e donne. Mentre le donne sono più portate a notare sfumature di colori, a chiamarli per nomi diversi a seconda della tonalità e ad associare un colore ad un oggetto che lo rappresenta; gli uomini invece hanno una linea di pensiero più semplice e racchiudono varie sfumature di colori sotto la stessa grande macroarea. Questo si rispecchia anche nella preferenza dei colori: il genere femminile predilige tonalità chiare e morbide, il genere maschile colori basilari e tinte brillanti.

Questo ovviamente si rispecchia anche nell’abbigliamento: le prime amano creare abbinamenti di colori, i secondi vogliono qualcosa di già abbinato. Questo vorrà forse dire che le donne sanno vestirsi meglio? Molto probabilmente hanno più cura e attenzione nei dettagli e nell’associare colori e vestiti. Non lo dico io, lo dice la scienza.

Color-marketing

Oltre al modo di vestirsi i colori sono fondamentali anche riguardo alla nostra presenza online. I social network e i siti web ormai possono essere considerati un’estensione della nostra persona, sono un ottimo strumento di personal branding e in quanto tali vanno curati partendo dalla scelta dei colori da utilizzare.

Non è facile come sembra, infatti prima di scegliere quali colori utilizzare bisogna analizzare il target di riferimento, le emozioni che vogliamo esprimere e le sensazioni che vogliamo suscitare in chi li vede. È bene sapere che, proprio come facciamo con i nostri outfit – o meglio dovremmo fare – non bisogna usare più di 3 colori per i nostri siti.

Quando vogliamo incitare il nostro pubblico a eseguire un’azione precisa come partecipare a un’iniziativa, comprare qualcosa o banalmente cliccare un qualsiasi pulsante (ciò che in gergo tecnico si chiama call to action) dovremmo differenziare quel pulsante dallo sfondo e dal resto del contenuto scegliendo un colore più acceso e che risalti su tutto il resto.

I colori sono fondamentali anche nella creazione di un brand. Spesso siamo in grado di riconoscere un marchio senza vederne il logo, ma soltanto attraverso il suo colore. A volte addirittura alcuni brand sono ricordati proprio grazie al loro colore particolare, esempio classico è “azzurro Tiffany”.

Il rapporto che c’è tra brand e il colore è fondamentale: nel corso della sua storia un marchio spesso cambia il colore del logo, della grafica e del packaging dei prodotti. Grandi marchi infatti stanno al passo con i tempi e seguono i trend del momento: McDonald’s e Coca Cola, solo per citare i più famosi, hanno ultimamente modificato il loro colore storico (il rosso, sarà un caso?) in verde. Si sono infatti voluti avvicinare a concetti come ecosostenibilità e green-life, dando un’idea di un’alimentazione più salutare.

Anche la famosa Barilla ha voluto rinnovarsi e passare dal profondo blu affidabile e rassicurante ad uno più chiaro e fresco che rappresenta rinnovamento e fiducia verso il futuro.

A volte dei brand si posizionano subito sul mercato in modo da risultare diversi (per non dire superiori) rispetto ai competitor: Apple ad esempio è stato il primo brand a lanciare cuffiette per la musica di colore bianco, in modo da differenziarsi da tutte le altre nere. Il colore dunque deve comunicare qualcosa di personale e unico del brand.

Cosa significa fondare una Startup.

Startup: un termine ormai sulla bocca di tutti, in tanti ne conoscono il significato “da dizionario”, ma pochi sanno realmente quello che c’è dietro.

Mario Moroni e Filippo Lubrano sicuramente la parola startup” la conoscono molto bene. Imprenditore e mentor il primo, ingegnere e consulente il secondo, lavorano da parecchi anni in ambito startup.

Ci hanno raccontato la loro storia e cosa significa lavorare in quel mondo.

Tutti vogliono fondare una startup

Al giorno d’oggi sembra quasi che tutti vogliono o hanno pensato almeno una volta di creare una loro startup. Ma cosa bisogna fare se si vuole fondarne una? Innanzitutto comprare il libro “Startup di Merda” di Mario. Non ti dice come sia tutto “rosa e fiori” fondarne una, ti mette invece in guardia sui passaggi precedenti all’avvio di una startup e di come sia una strada tutta in salita.

Molti pensano che basti un’idea e si è già a metà dell’opera, ma non è così. Non è sufficiente avere l’idea vincente e innovativa, come dice Mario: “l’idea non vale nulla, se non per quelli che ne parlano al bar davanti ad una birra”.

Serve infatti l’execution, il processo operativo in grado di svilupparla, le azioni che la concretizzano, ma soprattutto che la facciano risaltare in mezzo alle altre e fruttare sul mercato.

Il mercato delle startup

Ma come riuscire a far spiccare la propria startup in un periodo in cui queste nascono come funghi? Come detto poco sopra, troppo spesso si ha un’idea di startup e si pensa che sia vincente, senza però badare al contesto, non si presta attenzione se l’ambiente circostante ha bisogno di quella invenzione.

Bisognerebbe invece partire dal contesto e da esso capire quale invenzione si potrebbe sviluppare. Il più delle startup della Silicon Valley sono nate seguendo questa linea d’onda, in Italia invece accade il contrario.

Le doti dello startupper: follia o razionalità?

Un ultimo ma fondamentale passaggio da compiere prima di creare una startup è chiedersi se si hanno le doti e la forma mentis adatte per farlo.

Sicuramente all’inizio per buttarsi in un’impresa simile, dove tutto è incerto e la possibilità di fallire è elevata, serve coraggio e un pizzico di follia; ma una volta che l’idea si concretizza in un progetto, è necessario avere metodo e razionalità.

Uno startupper infatti è di base un imprenditore, deve quindi avere le caratteristiche tipiche di questo ruolo: resistenza allo stress e costanza nel perseverare sono skills fondamentali. In più deve avere un forte senso del sacrificio. A meno che l’aspirante startupper si licenzi dal suo lavoro, deve essere disposto a sacrificare il proprio tempo libero, weekend e uscite con gli amici compresi, per dedicarsi pienamente alla sua startup. L’idea che sta alla base non deve essere quanto potrebbe guadagnare economicamente, ma deve dedicarsi con impegno alla startup perché è felice di farlo.

E ora avete ancora voglia di creare la vostra startup?

Food, o meglio, cibo.

Se vi dicessi “food” cosa vi viene in mente? Sicuramente una tavola imbandita, una dispensa rifornita, una cena al ristorante. E invece niente di tutto ciò. Una stanza. Sì una stanza sul food quella che si è tenuta su Clubhouse.

Ma invece di chiamarlo “food” perché non lo chiamiamo cibo? Anna Prandoni ci tiene, dopotutto ci troviamo in Italia, paese dove la cultura del cibo è parte essenziale della storia di ognuno di noi. Ed è proprio lei, insieme a Roberta Niglio, l’ospite dell’evento.

Due ragazze, la stessa passione

Anna è una giornalista e scrittrice, si occupa da oltre 15 anni di enogastronomia. In passato ha lavorato con Gualtiero Marchesi e la sua accademia, ora si occupa di digital food e scrive per “Linkiesta”.

Roberta è una giovane ragazza di 25 anni, dopo la laurea in giurisprudenza decide di entrare nel mondo della cucina (anche se, a dire il vero, appartiene a questo ambito fin da piccola) aprendo il blog “giglierose” in cui le ricette a base di lievito madre fanno da padrone.

Entrambe si sono appassionate al mondo della cucina proprio grazie ed una figura cardine della loro vita.

La vicinanza del maestro Marchesi è stata fondamentale durante il percorso di Anna: da lui ha imparato a non aspettare e a cogliere le occasioni al volo quando si presentano sul proprio cammino. Il motto di Gualtiero era proprio: “Devi essere curioso e fare le cose subito”.

La persona a cui si ispira Roberta, invece, è sua nonna. Deve a lei la passione per la cucina e per le ricette tradizionali fatte in casa. Il nome del suo blog è proprio in onore di sua nonna: “Giglierose” è una frase che ripeteva spesso, è un augurio di buon auspicio e ricorda la storia della sua famiglia e la sua terra, il Cilento.

La nuova cucina

Parlando di cibo in questa stanza, è quasi inevitabile non paragonarlo alla situazione che stiamo vivendo adesso, in cui il mondo della ristorazione è uno tra i più colpiti.

In un territorio come il nostro, l’Italia, dove c’è una vera cultura del cibo, a tratti la ristorazione sembra essere stata un po’ abbandonata a se stessa. Bar e ristoranti si sono dovuti adattare e sono stati costretti rispettare le regole dello stare aperti solo a pranzo, delle consegne a domicilio, dell’asporto, o della sola rivendita di prodotti. Queste modalità possono essere utili per la sopravvivenza dell’attività nel breve periodo, ma a lungo andare ciò non sarà più sostenibile. Basti pensare che, anche un solo giorno a settimana di smart working per gli impiegati, pesa il 20% di fatturato in meno sulle casse dei ristoratori.

I ristoratori dovranno quindi pensare di trasformare, anzi rivoluzionare il loro business, senza dimenticarsi di ciò che sono. Recentemente, infatti, si è visto come anche i più tradizionalisti del settore si sono dovuti aprire al mondo digital e appoggiarsi a spazi virtuali per il bene della loro attività.

Essere presenti in digitale nell’ambito enogastronomico però non è così immediato come si pensa: è necessario avere coerenza e corrispondenza tra il ristorante, il menù, i piatti proposti e quello che viene comunicato online. L’ideale per il ristoratore sarebbe avere un esperto interno che se ne occupi, ma se ciò ha costi troppo elevati si dovrebbe almeno affidare a un’agenzia esterna che sposi i valori dell’azienda.

Ritorno alle origini

Per contro la chiusura di bar e ristoranti ha portato alcuni piccoli vantaggi alla vita quotidiana familiare: c’è stata una riscoperta dei piatti fatti in casa, del piacere di cucinare insieme e della passione nel preparare una ricetta tipica del territorio.

Ricordate che durante il primo lockdown il lievito e la farina era introvabili? Proprio quando le persone non sono assorte dalla loro vita frenetica, ritornano a cucinare in casa come un tempo, preparando impasti e piatti che richiedono una lunga lavorazione.

La domanda che può sorgere da questa situazione è se una volta tornati alla normalità e alla vecchia vita, in cui le giornate saranno piene di impegni, la voglia di preparare pietanze a mano in casa rimarrà la stessa? E se sì, ne risentiranno i ristoratori e le attività nel settore food?

La risposta non è così immediata. Quasi certamente la tendenza nata negli ultimi anni si intensificherà, cioè si preferirà andare nei piccoli ristoranti familiari di periferia in cui c’è una particolare attenzione ai dettagli e alle materie prime, rispetto alle grandi catene dei fast food.

L’augurio comunque è che si possa, e soprattutto si abbia la voglia, di tornare al più presto a quella socialità e quella convivialità tipica italiana, legata anche al mondo della ristorazione.

Torna Bookowski per MuseoCity 2021

Un tempo le presentazioni dei libri avvenivano nei circoli letterari, ora invece all’interno di auto d’epoca.

No, non è uno scherzo, è accaduto veramente. Lo scorso “Bookowski (cap.2) – Not the ordinary caffè letterario” si è tenuto proprio in alcune Alfa Romeo del Museo Fratelli Cozzi di Legnano.

La data era in programmazione all’interno degli eventi di MuseoCity, un’associazione senza scopo di lucro che opera per la promozione e la valorizzazione del grande patrimonio museale milanese.

Le protagoniste della serata Laura Campiglio e Francesca Lualdi si sono sedute all’interno di alcune cabrio per presentare i loro due libri “Caffè Voltaire” e “Tell me more Olivia”.

Egidio Alagia ha moderato l’incontro, Elisabetta Cozzi, padrona di casa del Museo, ha mostrato con un tour virtuale le auto presenti al suo interno. L’apertura della serata è stata accompagnata dall’ottima birra offerta da Legnano Brauhaus. L’evento è andato in onda in live streaming sui canali Zoom e Clubhouse in contemporanea.

Partiamo dall’inizio, cioè da dove è nata l’idea di presentare insieme i due libri.

La risposta è semplice: entrambi parlano di donne. Donne forti, coraggiose, risolute, caparbie.

“Caffè Voltaire” racconta la storia di Anna, una trentacinquenne che perde il suo lavoro da giornalista e che si ritrova ad adattarsi e dover scrivere per due giornali con schieramenti politici opposti, la destra e la sinistra. Decide così di firmarsi sotto due pseudonimi Voltaire e Rousseau. Questo doppio gioco però non sarà facile da sostenere a lungo andare.

“Tell me more Olivia” invece è una raccolta di storie. Storie di donne che hanno abbandonato una vita che non le apparteneva e hanno avuto il coraggio di reinventarsi e perseguire con il loro sogno nel cassetto. È una biografia che racconta il mondo del lavoro da un punto di vista tutto al femminile, non si concentra in uno specifico settore, ma spazia ad esempio dalla manager alla panettiera. Il libro è stato creato dopo aver aperto la pagina Instagram “Tell me Olivia”. Il progetto è nato dalla voglia di racchiudere e raccontare storie di varie donne, ma soprattutto per ispirare altre donne a seguire il loro esempio, a buttarsi e a costruire il loro sogno.

L’altra tematica che accomuna le due opere, oltre al fatto di parlare entrambe di donne, è quella del precariato. Problema presente non soltanto all’interno dei libri, ma è il riflesso della società odierna. Stando alla situazione attuale, l’incertezza lavorativa si fa sentire soprattutto tra le donne e i giovani. Sempre più persone fanno parte di quella fetta di popolazione in cui oggi lavori, domani chissà. Pochi decenni fa l’avere un contratto a tempo indeterminato era la costante della vita lavorativa, oggi invece non è insolito cambiare lavoro anche dopo pochi mesi. Il sapersi reinventare, quindi, è diventata la competenza primaria.

In merito, infatti, Laura ci dice che: “La flessibilità è fondamentale. Oggi i trentenni non hanno il sogno del posto fisso. Il concetto di ufficio è un luogo poco desiderabile, l’ufficio è dove c’è wi-fi”.

A proposito di lavoro e precariato, un settore colpito in modo prepotente dagli effetti della pandemia e delle chiusure è stato quello degli eventi culturali, degli spettacoli, delle manifestazioni e dei musei.

All’opposto però si è riscontrato che ciò non è accaduto per il mondo dell’editoria: sempre più persone sembravo aver scoperto (o riscoperto) fortunatamente il piacere della lettura. Essendo obbligati a passare molto tempo in casa, soprattutto durante il primo lockdown, in tanti hanno trovato un piacevole passatempo nella lettura. Non potendo uscire molti hanno comprato su famosi siti di e-commerce, ma nonostante questo, le piccole librerie indipendenti di paese sono comunque riuscite a giovarne e a vendere i loro libri. Dopotutto il bello della lettura non è soltanto il momento in cui ti siedi e apri il libro, ma anche entrare in una libreria, vedere come sono disposte le opere sugli scaffali, toccarli con mano prima di acquistarli e lasciarsi ispirare dalla copertina.

Quante volte vi è capitato di entrare in una libreria con l’idea di prendere un libro e uscire poco dopo con uno totalmente diverso da quello che si aveva in mente? Chissà se la prossima volta che entrate in una libreria, vedendo i libri protagonisti di “Bookowski ”, vi verrà voglia di comprare e leggere proprio questi…

Nel frattempo, ringraziamo le nostre due scrittrici Laura e Francesca, per averci presentato le loro opere tutte al femminile, ed Elisabetta, per averci ospitato nelle auto del suo museo.