Quando un cliente non ha niente da dire sul tuo lavoro, ti dice che va tutto bene e che è tutto perfetto, non compiacerti, lascia stare le pacche sulle spalle, prendilo piuttosto come un campanello d’allarme.
Ti è mai capitato di ricevere il ben servito da clienti con cui non hai mai avuto problemi e con cui, fino a quel momento, sembrava andasse tutto bene?
I motivi possono essere i più diversi, di relazione, di segnali che non hai saputo cogliere e che nel tempo hanno portato alla rottura, ecc.
Anche se hai la coscienza a posto e pensi di aver fatto un buon lavoro, ci sono delle cose che dovresti cercare di non dimenticare mai nel rapporto con un cliente.
Non sei perfetto
La prima cosa? È praticamente impossibile che tutto vada bene, che non ci sia qualcosa, anche di piccolo, che ti possa essere rimproverato.
Insisti per tirare fuori queste cose se non escono spontaneamente, sono difetti o semplicemente dei piccoli dettagli che potresti migliorare. In caso contrario, corri il pericolo di adagiarti o di pensare di essere molto (troppo) bravo. Due errori gravissimi.
I tuoi concorrenti non stanno certo lì a guardare e cercano in ogni momento d’intaccare la fiducia che un cliente ha nei confronti del suo fornitore del momento per prenderne il posto.
Gli altri cercano di mettere in cattiva luce il tuo lavoro, di evidenziarne i punti deboli e per insinuare il dubbio nella mente del tuo cliente che, raramente se non mai, te lo verrà a dire per confrontarsi.
Il più delle volte farà i suoi ragionamenti, giusti o sbagliati che siano, arrivando certe oltre anche alla decisione di chiudere il rapporto professionale con te.
“È quasi un amico”
Non per essere cinici, ma non ti fidare troppo del rapporto personale. Puoi anche avere una certa confidenza e sentirti tranquillo, ma quando si tratta di rapporti professionali, alla fine è la qualità del lavoro che fai e i risultati che porti che fanno la differenza. E anche questi potrebbero non bastare, perché se a parità di servizio un tuo concorrente costa meno, verrai salutato senza troppi rimpianti.
Cosa fare? Cerca i feedback del cliente, non aspettarli, richiedili periodicamente perché se non lo fai potresti non averne più la possibilità e trovarti davanti a un mancato rinnovo del contratto. Prendi questi riscontri molto sul serio, come preziose informazioni sulla bontà di quello che fai, lavoraci su e cerca sempre di migliorarti.
D’accordo, i clienti a volte sono strani o poco trasparenti e dicono il contrario di quello che fanno. Una classica frase che ti puoi sentir dire da un cliente è:
“Siete solo dei fornitori, io cercavo dei consulenti”
Salvo poi non ascoltare mai quello che consigli e prendere decisioni sempre di testa propria.
I clienti? Vanno e vengono
Ricorda però che i clienti vanno (accidenti) e vengono (speriamo!), mentre tu devi continuare a essere competitivo con la tua professionalità.
Non bastano la buona volontà o gli spunti che si generano all’interno della tua azienda, servono soprattutto riprove da fuori, riscontri dagli altri.
Mettiti in gioco senza prendere le critiche sul personale. Lo so, a volte sembra più facile a dirsi che a farsi, l’esperienza però mi ha insegnato questo.
“Ciao Lawrence” è il titolo dell’evento in onore di Lawrence Ferlinghetti, poeta, editore, attivista impegnato nel sociale.
Giada Diano, sua traduttrice e biografa, insieme a Roberto Bonzio, storyteller e giornalista curioso, moderati da Egidio Alagia, lo hanno ricordato con un interessante scambio di battute e aneddoti.
Giada ha raccontato di come l’ha conosciuto: appena dopo la caduta delle Torri Gemelle, in procinto di scrivere la sua tesi di laurea, invia una mail a Lawrence, spontanea, con la convinzione che un uomo del suo calibro mai le avrebbe risposto. Inaspettatamente accade il contrario. Si incontrano a San Francisco e inizia da qui il loro rapporto di lavoro durato vent’anni, fino al 22 febbraio scorso, giorno della sua scomparsa, a 101 anni.
Lawrence, il poeta.
Lawrence Ferlinghetti era un poeta, editore e libraio statunitense. Nel 1953 ha fondato “City Lights”, la sua famosa libreria e casa editrice. Grazie a lui artisti come Jack Kerouac e Allen Ginsberg hanno potuto pubblicare i loro primi lavori letterari.
Ma soprattutto Lawrence è conosciuto per essere il padre della Beat Generation, quel movimento artistico, un po’ ribelle e un po’ alternativo, in cui tanti giovani degli anni Cinquanta si riconoscevano.
Nonostante fosse il promotore della Beat Generation, non lo consideravano e lui stesso non si è mai riconosciuto tale: durante il lavoro doveva rimanere sempre ben vestito e in ordine, non voleva mischiare la sua vita da letterato con quella promiscua promossa dal movimento Beat.
Lawrence, l’attivista.
Nella vita di Lawrence un punto funziona da spartiacque e cambia totalmente la sua visione sulla vita e sul mondo: dopo aver preso servizio nella Marina Militare e aver toccato con mano le rovine lasciate dallo scoppio della bomba di Nagasaki, diviene pacifista radicale. Non sopporta l’idea che tanta violenza si potesse ripetere mentre era in vita. Si professa così un antimilitarista convinto.
Da qui si rafforza il suo attivismo sociale e civile. Prende posizioni contro la politica e il Governo e sostiene idee antitotalitariste, anticapitaliste e per un lungo periodo anche anarchiche.
Due ruoli in uno.
L’evento scatenante che ha dato il via al suo impegno civile è stato l’essere condannato per aver pubblicato il poema “Urlo” di Ginsberg. Il processo, poi vinto da Ferlinghetti, è diventato famoso a livello mondiale. L’opera era condannata per oscenità, lui sosteneva invece che l’opera non è oscena, ma è ciò che accade nel mondo ad esserlo.
La linea che divide il Lawrence poeta dal Lawrence attivista è dunque sottilissima, se non addirittura inesistente. Lui stesso riteneva che il compito del poeta è di critica sociale contro lo Stato.
“City Lights”, la sua casa editrice, era stata creata proprio con l’intento di renderla accessibile all’intero popolo. Non credeva che l’arte dovesse essere elitaria e destinata solo ai più intellettuali, voleva infatti diffondere una cultura “democratizzata”. La scrittura, e la poesia nello specifico, secondo Lawrence aveva il compito di mettere in comunicazione gli artisti e le masse, doveva inoltre funzionare come propulsore di valori quali pace, libertà e uguaglianza.
Proprio a partire da Ferlinghetti e dal suo ruolo di artista impegnato nel sociale, si sono poi sviluppati movimenti più ampi, come appunto la Beat Generation prima e la controcultura Hippie dopo, i cui valori sono validi ancora oggi.
Se la figura di Lawrence ti ha incuriosito e vuoi approfondirla, puoi rivedere il video integrale. Infine ringraziamo Giada Diano e Roberto Bonzio per essersi prestati a questo dialogo in ricordo di Lawrence Ferlinghetti. Per le foto, ringraziamo Elisa Polimeni.
SingularityU Legnano Chapter torna con il settimo appuntamento per parlarci di attacchi Criminal hacker rivolti alle aziende.
“Mission Seven: Cybersecurity” è infatti il titolo dell’evento che si è tenuto il 23 febbraio in live streaming da The ZEN Agency.
I relatori che hanno aperto l’evento sono stati Francesca Porzio (PwC Italy) ambassador di SingularityU Legnano, ed Egidio Alagia, membro del Leadership Team di SingularityU Legnano e Event Manager di The ZEN.
Ci spiegano come i Cyber attacchi nel 2020 siano aumentati del 246% rispetto all’anno precedente, complici anche lo smart working e la poca protezione dei sistemi informatici delle case private.
La notizia del giorno riguarda proprio quanto sia facile violare la privacy online: un utente cinese è riuscito ad entrare e registrare le conversazioni avvenute nelle stanze di Clubhouse, il social del momento.
La parola viene poi data ai due ospiti della serata: Giuseppe D’Agostino, partner di PwC Italy specializzato in cybersecurity e privacy, e Pierguido Iezzi, Co-founder e CEO di Swascan.
Le tecniche del cyber crimine
D’Agostino definisce il significato di cyberattacco e ci illustra il contesto generale. Esistono varie tipologie di hacker e agiscono per motivazioni diverse adottando svariate tecniche:
– il Criminal hacker agisce esclusivamente per soldi, propaga virus e ruba informazioni di valore, provoca perdite di denaro;
– l’Hacktivist agisce seguendo un’ideologia, altera i siti web per propaganda e divulga informazioni personali dei dipendenti, provoca danni d’immagine all’azienda, un famoso esempio di questa categoria sono gli “Anonymous”;
– i gruppi “Nation State” agiscono per sottrarre informazioni sensibili e l’impatto è la perdita di competitività;
– l’Insider agisce per vendetta, utilizza risorse interne come piattaforma di attacco, il danno è la perdita di clienti.
D’Agostino conferma che nell’ultimo periodo le aziende italiane hanno subito attacchi rilevanti, addirittura equivalenti a cifre milionarie, nonostante molte disponessero di misure di protezione già avanzate.
È difficile stabilire a priori la grandezza e l’impatto che avrà un cyber attacco anche a causa delle continue evoluzioni tecnologiche.
Una tecnica utile per tenere sotto controllo ogni passaggio informatico è chiamata Cyber Kill Chain. Si tratta di un modello suddiviso in più fasi, ciascuna correlata a una specifica attività, che permette di scandagliare e identificare in quale settore è avvenuta l’intrusione criminale.
La massima priorità per i CEO delle aziende ad oggi sono le misure da adottare per prevenire tali attacchi. A tal proposito è fondamentale eseguire dei test di attacchi per comprendere i meccanismi interni e di conseguenza le misure preventive da adottare.
Si stima infatti che da ora la spesa per cybersecurity da parte delle aziende aumenterà del 20% ogni anno, in più crescerà anche lo staff e il personale esperto in sicurezza informatica. Ai security manager saranno sempre più richieste soft skills quali pensiero critico, capacità di analisi, velocità nel prendere decisioni.
Per le piccole imprese che non hanno un settore IT interno dedicato, sarà basilare l’adozione di un cloud security.
Lo scenario attuale
Il secondo esperto, Iezzi, entra più nello specifico, andando a delineare lo scenario attuale del Cyber Crime.
Gli attacchi informatici sono cresciuti esponenzialmente perché ad oggi esistono una serie di tecniche e strumenti, facilmente reperibili, che permettono anche a Criminal Hacker “alle prime armi” di lanciare massicce campagne di Cyber Crime con una serie di tecniche.
Gli ultimi anni hanno visto una vera e propria democratizzazione della criminalità informatica. Quello che era appannaggio di poche figure più tecniche e “skillate”, adesso è disponibile a chiunque o quasi…
La brutale verità è che il Cyber Crime è una comodity e come tale attorno a esso si è sviluppata un’economia completa in grado di rendere queste attività illegali fruibili come veri e propri servizi.
A partire dall’abbondanza di Data Breach e Data Leak, che hanno fornito milioni di credenziali sottratte o esposte accidentalmente, si è creato questo ecosistema di servitizzazione del Cyber Crime.
Il Social Engineering, quell’insieme di attacchi che fanno leva sulle “debolezze” umane e soprattutto sulla psicologia, ha visto l’incremento più sostanziale.
Principe tra le tecniche di social engineering è il Phishing, le classiche email truffa, che è diventato sempre più raffinato e convincente. I Criminal Hacker possono infatti inviare campagne di email contenenti allegati malevoli o link a siti dannosi con un semplice click. Il tutto facilitato da servizi messi in piedi da altri Criminal Hacker che permettono di congegnare queste truffe in pochi step.
A questo fenomeno dobbiamo anche affiancare la crescita dello Smishing – che sfrutta i numeri di telefono rubati o esposti in Data Leak – per inviare sms malevoli contenenti link a siti truffa che ingannano le vittime a inserire inconsapevolmente le proprie credenziali o dati finanziari (andando quindi ad autoalimentare l’interno ecosistema del Cyber Crime).
A tutto il filone Social Engineering si affiancano gli attacchi che puntano alle vulnerabilità, quindi sulla carta più tecnici. Ma anche qui la verità è che il Cyber Crime ha semplificato enormemente il modo in cui un Criminal Hacker può sfruttare una falla o un difetto in un sistema per lanciare il suo attacco.
Grazie alla commistione di servizi di Cyber Crime as a Service ed automazione, infatti, è possibile prendere di mira specifiche vulnerabilità attraverso kit di attacco preconfezionati.
E I bersagli non mancano, complice anche la maggiore visibilità delle lacune garantita dai servizi di Threat Intelligence. Strumenti imprescindibili lato azienda, ma che possono anche essere utilizzati dagli aggressori (qui vige la legge del “chi prima se ne accorge”).
Prendere di mira una vulnerabilità è uno dei metodi preferiti per ottenere l’accesso ai sistemi di un’azienda e – per esempio – installare Ransomware. Non a caso questi ultimi hanno visto, come tutto il comparto del Cyber Crime, una vera e propria impennata negli ultimi 12 mesi.
Questo abbassamento del livello di skill necessario ad effettuare campagne e l’aumento spropositato di possibili target a disposizione dei Criminal Hacker sono quindi la più grande causa della crescita vertiginosa del Cyber Crime.
Come agire per contrastare il fenomeno? Sicurezza Predittiva, Sicurezza Preventiva e Sicurezza Proattiva: i fondamenti della Cyber Security. Andando a rivedere e consolidare competenze, tecnologie e processi, ogni azienda può e deve arginare la crescita del Cyber Crime con un approccio Tout court che non tralasci né la componente tecnologica né quella umana.
Conclusioni
La domanda da porci ora è come sarà lo scenario del 2021 e se abbiamo imparato qualcosa dagli attacchi hacker avvenuti nell’anno passato. Dobbiamo incrementare la sicurezza informatica? Quali consigli possiamo dare?
I due esperti dicono che l’oggetto degli attacchi sarà sempre più il soggetto privato, è essenziale dunque incrementare la cultura informatica e rendersi consapevoli dei rischi, non è necessario preoccuparsi eccessivamente per i dati condivisi online, invece è opportuno proteggerli da attacchi esterni.
Il social del momento? Dai, lo sai anche tu, parliamo di Clubhouse.
Non so che cosa diventerà Clubhouse, quello che farò è semplicemente raccontarti quella che è stata fino a oggi la mia esperienza sul social per spiegarti perché dovresti (o “devi”, se lavori nel mondo della comunicazione) esserci.
Partiamo da che cos’è Clubhouse
Possiamo definirla una nuova piattaforma social “vocale” a cui si accede solo su invito.
Ci sono delle stanze tematiche virtuali (room) all’interno delle quali gli utenti interagiscono, in tempo reale, attraverso la loro voce.
La piattaforma nasce nel 2020, da un’idea di Paul Davison e Rohan Seth.
Che cosa serve fare per esserci:
Avere un iPhone o un iPad.
Scaricare l’APP.
Avere a disposizione un invito.
Il terzo punto è centrale, non solo ti servirà per iscriverti, ma la persona che ti “presenta” alla community comparirà all’interno del tuo profilo.
Tradotto: se una persona della quale non hai grande stima, o che pensi possa creare disordine all’interno delle stanze, ti dovesse chiedere un invito – ecco – pensaci un attimo.
Hype, baby
Mercato degli inviti, persone che acquistano iPhone usati per scaricare l’APP…
Come far parlare di sé come “social” in un pianeta nel quale il tempo a disposizione è sempre meno, si cerca la disconnessione, e – soprattutto – si ha la percezione che l’universo delle piattaforme esistenti in un certo senso abbia saturato le funzionalità disponibili?
Tre spunti: FOMO, community, voglia di esprimersi.
FOMO
Fear of missing out, vendere (anche il download di un’APP) generando senso di urgenza e scarsità è un classico, ma funziona eccome.
Hai presente quando Booking ti dice: “due utenti hanno prenotato il tuo hotel poco fa…”?
Ecco, il fatto che non dico sia “difficile” entrare su Clubhouse (quantomeno avendo una normale rete sociale di conoscenze) ma comunque limitato, scatena la sensazione che – se assenti – si possa rischiare di perdere qualcosa.
Mi posso divertire a una sagra in piazza, ma ci possono andare tutti in fondo. Che me ne frega.
Vuoi mettere conoscere la parola d’ordine per accedere a una festa esclusiva in una location segreta? Scusa per l’esempio pre-Covid, mi serviva per farti capire cosa intendo.
Community
La voce avvicina, la sensazione di confidenza che arriva dal condividere una stanza digitale esiste, eccome. È molto facile trovare appassionati di qualsiasi cosa con i quali confrontarti, conoscerti e spostare il contatto a un livello successivo come Instagram, oppure LinkedIn.
Sono nate le prime stanze che si ripetono quotidianamente, oppure settimanalmente. All’interno di queste, sarà molto facile ritrovare le stesse persone che si danno appuntamento.
Parlando di community, ho avuto la fortuna di conoscere Marta Basso, Ana Maria Fella e Federico Cecchin ai quali faccio i miei complimenti per aver avviato e organizzato la prima community italiana, oggi conta più di 2.200 persone su un gruppo Telegram dedicato a Clubhouse e – soprattutto – aver fatto nascere “CLUB ITALIA”.
CLUB ITALIA è il primo club italiano, mentre le “Room” si possono aprire liberamente per i “Club” serve la concessione di Clubhouse. All’interno di un “Club” si potranno appunto fare nascere e organizzare le varie “Room”. Grazie al lavoro di Marta, Ana e Federico e a quello di una vera e propria redazione di appassionati provenienti dai più diversi settori, oggi è disponibile una vera e propria programmazione adatta a tutti i gusti.
Voglia di esprimersi
Clubhouse non è il nuovo “nulla”, come tante novità interessanti è tale proprio per la sua unicità.
È probabilmente l’incrocio tra una radio e un podcast, con una spruzzata di Twitter e LinkedIn.
Partiamo da un punto: ci si può porre attivamente o passivamente su Clubhouse.
Con passivamente, intendo che si possono semplicemente ascoltare le stanze, senza per forza sentirsi in dovere di intervenire. Non è vero che si perde tempo per forza. Posso ascoltare Clubhouse come Spotify, nessuna differenza.
Attivamente, invece, significa interagire “alzando la mano” e lasciando il proprio commento oppure aprendo le proprie stanze come “moderatore”.
Rispetto agli altri canali social, qui è molto più difficile dimostrarsi interessanti se non si ha nulla da dire di valore. Non puoi giocartela con l’essere fotogenico/a.
Non c’è tempo per una ricerca su Google o per la stesura di un discorso, o sai o non sai.
Se sai, puoi decidere di esporti e fare crescere in modo organico una community di “veri” followers, che ti seguiranno per quello che dici.
Se non sai, puoi decidere di tacere e imparare, oppure esporti rischiando il contradditorio o di doverti confrontare con esperti veri.
Moderatore is the new influencer
Il ruolo del “Moderatore” della stanza si posiziona tra quello dell’influencer e quello del content creator. Le cito entrambe perché non sono (ancora) figure completamente sovrapponibili.
Per un moderatore è importante far crescere il numero followers, ma è ancora più importante la costruzione di una community fedele e proattiva. Che me ne faccio di 1.000 followers di “cortesia”, se non sono interessati ad ascoltarmi quando apro o parlo in una room?
Nessuno sa quale sarà il futuro di Clubhouse, quello che sto cercando di fare personalmente è la costruzione di stanze da 150/200 persone all’interno delle quali confrontarsi, divulgare, ma potersi permettere di lasciare spazio di intervento al pubblico. Perché ti renderai conto di quante storie e persone interessanti conoscerai partendo da un’alzata di mano.
Questo tema va a braccetto con il discorso del content creating: studiare temi di confronto, trovare le persone giuste con le quali avviare le discussioni e stimolare un dibattito sano e rispettoso. Lasciare “qualcosa” a chi ascolta.
Sto scrivendo di domenica (San Valentino), sono le 18.41, ho un occhio sul Mac e uno sull’Olimpia Milano che si sta giocando la Finale di Coppa Italia contro Pesaro (molto anni ’80).
In questo momento, ecco qualche esempio di stanza online: “LinkedIn per trovare lavoro”, “Quelli felicemente single in questo San Valentino”, “Karaoke estremo con Ambra – Speciale San Valentino”, “I ROOMinanti – Chi meno ama è più forte si sa”, “La più bella dichiarazione d’amore che hai ricevuto?” ma la più bella, per distacco, è: “VETRINA (così, in maiuscolo): non si parla, ci si scambia il follow per crescere”.
In riferimento all’ultima dicevo che se non hai nulla da dire non è il posto giusto, come vedi è tutto un punto di vista.
Employer Branding
Quando arriveranno (perché arriveranno, tranquillo) anche le aziende sarà molto interessante.
Come utilizzeranno il social? Semplicemente per provare a “vendere”? Oppure potranno provare a trasmettere la cultura aziendale, cercare talenti e – perché no – organizzare le prime fasi della selezione direttamente su Clubhouse?
Abbiamo assistito a un successo clamoroso della room dove è stato ospitato Elon Musk, quale impatto potrebbe avere lo stesso sistema applicato ad atleti o altre personalità del mondo business, avvicinabili a dei brand? Quanti parlerebbero con LeBron James in una stanza organizzata da Nike? La risposta è: il numero equivalente alla capienza digitale della stanza.
Shift Happens e Bookowski: sperimentiamo!
Ho aspettato a scrivere questo articolo non per pigrizia (questa volta non c’entra, altre sì) ma perché ho voluto fare quello che dovrebbe fare chiunque lavori nella comunicazione: si studia il canale, ci si informa e si sperimenta per capire come poterci stare con un senso.
Ogni mercoledì dalle 17.00 (nel senso che iniziamo alle 17.00 e finiamo quando ci va) facciamo una stanza che si chiama “FDO presenta SHIFT HAPPENS”. Siamo nella programmazione di CLUB ITALIA, appunto.
Sostanzialmente un paio di relatori che raccontano un tema a un pubblico che sta crescendo e a un panel di ospiti che si completa dei cosiddetti “FDO Friends”, amici che sono stati relatori o ospiti di FDO – For Disruptors Only (uno degli eventi organizzati da the ZEN agency) che se online mi fanno compagnia interagendo con i protagonisti della stanza.
Per coordinarsi – da un’idea dell’ottima Enrica Mannari (vedi sopra, speaker di FDO che mi aiuta nella conduzione) – il segnale per passare la palla (e la parola) è la citazione di Kuiil: “Ho parlato” (se non hai visto The Mandalorian, interrompi la lettura e guardatelo).
Il 5 marzo raddoppiamo, portando anche la seconda data di “Bookowski – Not the ordinary caffè letterario” su Clubhouse, insieme a Laura Campiglio e Francesca Lualdi.
Quindi, perché essere su Clubhouse?
Perché nessuno sa se sarà il social del futuro, ma serve essere dove si generano flussi di comunicazione interessanti.
E oggi, è un dato, sempre più persone scelgono Clubhouse per comunicare.