Loading...

Esiste un profilo del fottuto genio?

Ne abbiamo parlato a FDO tra tecnologia e iniziative  di Disruption, scoprendo che la genialità può essere ricercata e  promossa con un modello di caratteristiche.

Torniamo a incontrarci di persona. Col nuovo appuntamento della serie For Disruptors Only (FDO) torniamo a far discutere i nostri relatori e il pubblico presente. Poche persone, e distanziate, ovviamente, che sono intervenute da WeWork a Milano per ascoltare storie di genio e sregolatezza, sempre dirette a innovare e a creare una rottura, positiva, all’ordinario appiattimento.

Introduction to Disruption, di Riccardo Bovetti (EY)

Il genio è la accurata capacità di tenere celate le proprie fonti”.

Albert Einstein

Nel presentare l’argomento di questa sera, non mi sono fermato all’associazione tra innovazione e cambiamento. L’innovazione è qualcosa che esiste, concretamente, non è solo cambiamento e miglioramento, cioè una variazione di tipo qualitativo. Non è vero che per fare qualcosa di nuovo serve sempre a cambiare.

Innovazione e cambiamento possono essere conseguenti, ma anche derivare una dall’altro.

A volte l’innovazione è stata pensata molto prima della sua attuazione, ma mancavano ancora le condizioni per poterla realizzare in concreto.

Necessarietà dell’innovazione: è buona di per sé? Siamo portati a pensare che abbia a che fare con la velocità del cambiamento. Quello che ci sconvolge è l’accelerazione che ci può portare a uno stravolgimento del nostro quotidiano.

Creare il futuro con l’Intelligenza Artificiale, di Fabio Moioli (Microsoft)

In Cina un algoritmo di intelligenza artificiale parla al telefono, scrive poesie e conduce 18 trasmissioni radiofoniche in contemporanea. L’Intelligenza Artificiale (AI) è già nei nostri telefoni. In Olanda un algoritmo ha creato un nuovo dipinto che gli esperti hanno ammesso che avrebbero potuto scambiare con un’opera autentica di Rembrandt.

23 anni fa un computer ha battuto il campione di scacchi, nel 2016 ha vinto contro il campione del complesso (triliardi di combinazioni) gioco ‘Go’ e da quell’anno in poi si è raggiunta la parità uomo macchina in diversi campi: comprensione del testo, traduzione dal cinese alle lingue occidentali e altro ancora.

Fabio Moioli di Microsoft è uno dei più grandi esperti di Intelligenza Artificiale in Italia.

In quali campi si può usare la AI per sviluppare il genio? È come chiedere cosa si può fare con l’elettricità: creare il futuro. Purtroppo molti usano la AI ‘solo’ per fare le cose un po’ meglio.

La sfida più grande che dobbiamo affrontare è il re-skilling, forse come società stiamo sottostimando questo aspetto.

Siamo passati da un mondo in cui facevamo fatica a farci capire dalle macchine, a un mondo in cui parliamo alle macchine, senza usare interfacce complicate come una volta.

La AI va usata per creare il futuro, in modo geniale. Una delle sue utilità più importanti è quella che permette di prendere decisioni migliori facendo previsioni (marketing e tanto altro).

Il futuro? L’Intelligenza Artificiale sta crescendo da poco, solo ora ci sono la potenza di calcolo, la quantità di dati e gli algoritmi per poter far crescere il processo.

Quello che ci aspetta oltre questo gradino è il Quantum Computing, si potranno processare in secondi algoritmi che con ad oggi richiederebbero un tempo superiore alla vita dell’universo.

Sono preoccupato? Dell’uomo, sì, di come potrebbe usare tutto questo in modo sbagliato.

Il miglior modo di predire il futuro è crearlo.

Dobbiamo ricordarci che nel corso dell’evoluzione quello che ci ha resi vincenti come specie è la collaborazione, senza di questo ci saremmo estinti. Secondo me la collaborazione è essenziale anche tra uomo e macchina.

L’AI sta diventando sempre più complementare all’uomo. Per esempio, un esame medico controllato dall’algoritmo e dal medico ci può dare il risultato migliore, la migliore diagnosi.

Uomo e macchina sono complementari e sinergici. Potremo sì prendere decisioni migliori e sempre più importanti, aumenteremo la nostra intelligenza, ma questa tecnologia non potrà amplificare i nostri valori, i nostri principi etici, quelli in base ai quali la useremo.

Al centro quindi rimarrà la nostra parte più umana, la più bella, quella che determinerà maggiormente il futuro, più che la tecnologia di per sé.

Chiara Bacilieri: ragioniamo sempre su cosa la tecnologia può fare meglio di noi, ma Fabio ci ha fatto vedere questo rapporto in modo diverso. Dobbiamo chiederci come ci può aiutare, non come ci può superare. Dal punto di vista della capacità umane (relazione, empatia, ecc.), pensi che l’AI ci possa aiutare?

Fabio Moioli: quando si tratta di decisioni importanti, quelle che impattano sulla vita delle persone, penso che la decisione debba sempre essere presa da un essere umano. L’algoritmo ci può dare dei suggerimenti, ma dobbiamo essere noi a decidere se siamo d’accordo o meno su quel suggerimento.

L’AI non è giusta, è efficiente. L’algoritmo usato per fare selezione del personale, in occidente imparerebbe ad assumere solo uomini bianchi, perché si rifà sui dati storici dell’azienda. Altri esempi di questo tipo sono nel campo dell’applicazione della legge, o nella scelta di concessione dei mutui, ecc.

L’algoritmo può provare empatia, avere una coscienza? Oggi no, tra anni, molti anni, forse sì. Oggi possono simulare empatia. Può essere efficiente nel rispondere in modo empatico, sa simulare, ma non è giusto, non ha vera empatia. I principi restano di dominio umano.

La rivoluzione della birra artigianale, di Teo Musso (Baladin)

Io parlo di cose più materiche dall’AI. Sono un ragazzo di campagna, vengo da un paese di 900 abitanti. 34 anni fa ho fatto qualcosa di molto diverso da quello a cui era abituato il mio paese, che è molto vicino a Barolo e Barbaresco, terre di grandi vigneti.

Invece del vino, la birra. 34 anni fa ho aperto un locale dedicato a birra e musica. Ho iniziato a importare birre e ha funzionato bene, grazie alla passione e alla musica. Io e mia moglie abbiamo fondato una scuola di musica per disabile e una per gli ‘apparentemente’ abili, ho avuto un’etichetta discografica e fatto il tour manager.

Teo Musso e prima birra artigianale in Italia.

Il mio percorso più importante però ha riguardato la birra. Nel 1995 ho iniziato a produrla, cosa che in Italia non si faceva. All’inizio non ha funzionato, la gente guardava con diffidenza alla birra artigianale, ho perso l’80% dei miei clienti.

La birra artigianale era una vera rivoluzione culturale, qualcosa che ha creato diecimila posti di lavoro negli ultimi 6 anni, non male per un paese come l’Italia.

Dopo il primo fallimento, la riflessione, semplice, è stata: stavo producendo delle birre profumate, ma fino al giorno prima le birre si bevevano in apnea, perché puzzavano ed erano tristi. Ho pensato allora di rivolgermi e portare questo messaggio agli appassionati di vino, che fino ad allora consideravano la birra un sottoprodotto.

Così ho rivoluzionato il mercato, ho creato una nuova immagine, usando delle bottiglie che sembravano di champagne per la birra, con etichette originali e fuori dagli schemi. Ho selezionato 500 ristoranti in tutta Italia e sono andato a portare le mie birre artigianali.

La risposta è stata positiva, un po’ di ristoranti hanno cominciato a usare le miei prime due birre e soprattutto qualche giornale ha cominciato a scrivere che:

C’è un matto che sta girando per l’Italia dicendo che si può sostituire il vino con la birra”.

Poi è arrivata la tv: Uno Mattina, TG Leonardo, ecc. E la gente ha cominciato a tornare nel mio locale e sono andato avanti nella mia rivoluzione.

Nel 2000, sono passato dalla produzione dentro il locale a fare una cantina di fermentazione e imbottigliamento nel pollaio dei miei genitori, cosa che mi ha causato qualche ‘piccolo’ problema burocratico con l’ufficio tecnico del comune.

Tra il 2000 e il 2004 ho creato una società di distribuzione, perché a quel punto era diventato indispensabile per avvicinare la mia birra artigianale al cliente finale. Oggi, arriva il prodotto arriva in 54 paesi nel mondo.

Nel 2005 mi hanno dato un premio per aver portato la cultura della birra nel mondo, ma nonostante questo l’Italia ha scoperto la birra artigianale solo nel 2011.

Questo premio mi ha dato una botta di energia. Ho creato un marchio concorrente solo per stimolare il mercato; poi ho disegno un bicchiere che è diventato un simbolo di questa rivoluzione (oggi ne vendiamo 2 milioni l’anno), che ha ridato dignità alla birra e allo stesso tempo è un bicchiere tecnico di degustazione.

La birra è un prodotto che dipende dalla terra ma ne è slegato, perché i birrifici industriali comprano le materie prime dal mercato, anche e soprattutto estero. Negli ultimi 15 anni ho lavorato sulla filiera della birra, iniziando la coltivazione del luppolo e producendo la prima birra 100% italiana, con soli ingredienti italiani.

Noi che produciamo alimenti, abbiamo un rapporto intimo con le persone, perché entriamo nel loro corpo, a volte ce lo dimentichiamo. Continuo a sperare che siano gli uomini, con le loro passioni, a fare dei prodotti che mi entrano dentro.

Massimo Temporelli (F****ing Genius)

Nel 2017, non c’era la cultura del podcast. Pochi li ascoltavano, pochi li producevano, la maggior parte erano trasposizioni integrali delle trasmissioni radiofoniche.

‘Storie libere’ mi propose di raccontare storie di divulgazione scientifica scritte apposta per il podcast. Il pubblico era acerbo, volevano che mi occupassi di contenuti scientifici e mi hanno dato carta bianca.

Ho pensato di raccontare le storie delle persone che per me hanno cambiato il mondo; idea di per sé banale, ma che ho messo in pratica con uno stile e un piglio particolare. È nato così F****ing Genius e il fatto che sulla scienza ci fosse poco e che il consumo di podcast fosse in crescita, mi ha portato ad avere numeri importanti di ascolto e download.

Idea, titolo e copertina, i testi e tipo di canale, hanno contato molto in questo successo secondo me. Questo insieme di elementi magici non capita spesso nella vita, ma si sono verificati tutti insieme.

Massimo Temporelli è diventato famoso grazie al suo podcast sui fottuti geni.

Il podcast F****ing Genius è stato pensato per i giovanissimi, con l’obiettivo di ispirare e sfruttare la conoscenza e i potenti strumenti di oggi per diventare ‘fottutamente geni’ e andarsi a prendere il mondo.

Ne è nato poi un libro che è nato dal podcast e hanno cominciato a invitarmi nelle università e nei festival per parlarne.

Dopo essere stato tappato come tutti per il lockdown, avevo una gran voglia di andare in bicicletta. Così, mi è venuta l’idea del Book Bike Tour. Perché? Volevo che la scienza fosse raccontata da chi la vive da dentro.

Non ho mai fatto ciclismo da strada, su lunghi percorsi, sono quindi partito come parte uno scienziato, per fare di questo viaggio una metafora di quello che fanno gli innovatori da sempre: esplorare.

Ho fatto tutto da solo, ho organizzato il percorso, ho contattato gli scienziati e gli innovatori che avrei incontrato lungo la strada, ho comunicato l’iniziativa e mi sono allenato tutti i giorni per diverse settimane.

Sapevo che partivo per una cosa che non avevo mai fatto e che mi metteva un po’ in pericolo, però in questa metafora volevo che emergessero le caratteristiche che devono avere i fottuti geni. Non c’entra niente con il talento e la genialità, ha a che fare con la resistenza, la capacità di resistere alla fatica.

Non esiste il genio isolato, oltre alla fatica e all’esplorazione serve la collettività, il contesto che ci sta intorno, le persone che ci circondano. Questo Tour era un modo per cucire insieme tutte le mie relazioni, da Milano alla Sicilia.

La genialità? Bisogna esplorare, uscire dalla zona di comodo e nutrirsi di relazioni e stimoli.

Cosa mi porto da questa esperienza? Per esempio aver fatto Prato-Firenze, circa 30 km, in bicicletta insieme a Mario Cipollini, l’ex grande campione di ciclismo.

Fare il compitino, senza esagerare mai, ci sta rovinando. Non sto parlando di presunzione, ma di cercare di andare oltre i propri limiti.

Il talento per me è equidistribuito, non è vero che gli americani hanno più talento degli italiani o viceversa. Dove emerge il talento? Dove ci sono delle caratteristiche propedeutiche ed è proprio questa la domanda che viene fuori da eventi come questo: come posso io imprenditore creare le condizioni per far emergere il talento delle persone che lavorano per me? La stessa domanda se la dovrebbero fare le nazioni, le università, ecc.

Dobbiamo rispondere adesso e cercare un modello da applicare e replicare. 

Se diversi giovani hanno scelto di studiare in una certa direzione perché ispirati da quello che hanno letto nel mio libro, ho fatto la mia piccola parte per creare un humus positivo.

Chiara Bacilieri: immaginiamo di fare ogni giorno qualcosa che ci fa paura e che non abbiamo mai fatto. ‘Io sono fatto così’ è un motivo per non muoverci dalla nostra zona di comfort. Se però cambiamo il contesto, una caratteristica che forse non conoscevi di te può venir fuori. Esiste un profilo del fottuto genio? 

Massimo: La gioventù è fondamentale. Io ho 47 anni e il mio cervello è cristallizzato, per questo le persone mature e anziane hanno un compito: promuovere i giovani. La storia ce lo dice, le grandi idee sono frutto di menti giovani, di solito under 25.

Chiara: dobbiamo anche creare una cultura del fallimento, perché provare cose nuove vuol dire fallire la maggior parte delle volte.

Massimo: e dagli errori possono nascere storie molto belle, altrimenti impossibili.

Come nasce un’idea? Tavola rotonda con il Gruppo Giovani Imprenditori di Assolombarda

Chiara: secondo le fasi aziendali di Michael Watkins (STARS: start-up, turn around, acceleration and growth, realignment, sustaining success), un manager è adatto, per sue predisposizioni, a solo una, massimo due di queste fasi.

Come nascono le idee nelle fasi che voi rappresentate?

Alan Torrisi (Primis Group): in Italia la Disruption paga poco, le giovani start-up sono viste come acerbe e con timore. L’età media degli imprenditori è alta, perciò guardano con diffidenza ai giovani che propongono di cambiare lo status quo.

L’accelerazione va affrontata per step, non può essere secca e troppo forte, c’è una zona di resistenza. Così bisogna puntare invece a una zona di accettazione, in modo più tattico.

Angelica Peretti (Duing): siamo giovani, ma abbiamo lavorato all’estero per una grossa azienda come Unilever. Grazie a questa esperienza abbiamo capito di cosa hanno bisogno un certo tipo di imprese. Questi insights ci hanno portato a pensare e poi a realizzare un progetto come Digitazon, cioè un marketplace di giovani dotati di competenze al servizio delle aziende.

Marzia Chiesa (SODAI): i miei fallimenti sono stati degli ottimi punti di ripartenza. Venivo da una formazione molto diversa dai temi che poi ho affrontato, sono arrivata nell’azienda di famiglia in un contesto di settore maschilista e vecchio. Ho iniziato a lavorare sulla sostenibilità come motivo e strumento di business, in un mondo che parlava ancora poco di questo argomento.

Puntare sull’economia circolare, sulla sostenibilità anche interna all’azienda, ha pagato, anche se all’inizio sembrava un azzardo. Noi innoviamo continuamente, l’innovazione deve diventare cultura. Dopo dei problemi di percorso, l’azienda ora è arrivata un buon punto evolutivo.

Per uscire dalla mia comfort zone, sto creando un blog in cui mi racconto come donna, come mamma e come imprenditrice per diffondere la sostenibilità come modo di pensare.

Le personas sono profili realistici e dettagliati dei potenziali clienti.

Perché devi mettere le Personas al centro della strategia

Il prodotto prima di tutto? Ecco un caso studio che spiega come si può iniziare un percorso per spostare il punto di vista e orientarlo sul cliente finale invece che sull’azienda.

Parlare di Personas oggi è più facile di quanto non lo fosse cinque o sei anni fa. Questo tipo di approccio strategico è diventato più comune, ma il fatto di conoscerlo non vuol dire sia diventato anche nel concreto il fulcro della comunicazione aziendale.

Esiste e persiste un retaggio che vuole che l’azienda, con i suoi prodotti e i suoi servizi, sia sempre al centro di ogni comunicazione, indipendentemente dal mezzo o dal canale.

Scardinare questo concetto non è semplice, soprattutto quando si ha a che fare con PMI o con aziende di famiglia, magari anche di seconda o terza generazione, in cui la strada dettata dal fondatore, anni e anni fa, è ancora quella maestra.

Il cambiamento ha bisogno di tempo

I cambiamenti avvengono lentamente all’interno delle organizzazioni, perciò bisogna avere pazienza e partire dalle (nuove) basi, quelle che aiutano a mettere le fondamenta per costruire qualcosa di diverso.

Quando siamo stati chiamati a lavorare per un’azienda storica del Made in Italy come Peg Perego, il nostro atteggiamento è stato proprio questo.

Nel nostro modo di supportare la comunicazione, l’azienda ci ha subito e chiaramente chiesto un nuovo punto di vista, più dinamico e orientato alla strategia. Abituati da anni al loro modo di fare e vedere le cose, volevano un’agenzia in grado di stimolarli e provocarli.

E il nostro approccio strategico è partito, appunto, dalle basi, prima con un lungo e accurato studio del contesto del mondo dei prodotti per l’infanzia, e poi, come secondo step, con la definizione delle cosiddette Personas, il fulcro di qualsiasi strategia.

Prima di tutto capire il contesto

Per analizzare il contesto abbiamo allargato l’orizzonte a un numero di concorrenti piuttosto alto, italiani e stranieri, con un focus sul mondo dei seggiolini auto, un settore in cui Peg Perego era in fase di lancio e partiva da outsider dal punto di vista della consapevolezza del prodotto rispetto a molti concorrenti.

Anche i papà si interessano all'acquisto del seggiolino auto.

Analizzato il contesto, è arrivato il momento di introdurre il concetto di Personas, cioè di archetipo della persona a cui l’azienda vuole offrire un beneficio e vendere i propri prodotti.

Per definire in modo preciso delle Personas bisognerebbe avere quante più informazioni possibile e, idealmente, procedere a delle interviste.

La situazione ideale non è sempre possibile, perciò spesso ci si trova a fare il meglio con quello che si riesce a ricavare dai dati reali, anche facendo delle ipotesi che però vanno poi validate e verificate da informazioni concrete.

Dagli insights alle Personas

Questi insights iniziali possono arrivare da ricerche di settore (dati generali), da sondaggi commissionati dall’azienda stessa (dati settoriali, più specifici), dai feedback del servizio clienti, dalle informazioni raccolte sul campo dai commerciali presso i rivenditori, dagli analytics del sito web e dei canali social, dai commenti lasciati nel blog e altro ancora. 

Il metodo delle Personas in qualche modo ci ha permesso di parlare di data driven prima dell’avvento delle tecnologie esponenziali di cui tanto si parla da qualche anno a questa parte.

Le mamme sono state le protagoniste dello studio delle personas per Peg Perego.

Da agenzia che si avvicinava al settore dell’infanzia per la prima volta, ci siamo concentrati sulle donne e sui diversi tipi di mamma, ma non abbiamo escluso a priori che i papà potessero dire la loro sull’acquisto di una seggiolino auto e che lo stesso potessero fare i nonni, spesso tra i principali fruitori di questo tipo di prodotto.

Quello che è uscito dal nostro studio era un quadro di circa una decina di Persons, profili dettagliati di persone con un nome, una foto, delle caratteristiche piuttosto precise, interessi, paure, ecc. 

Quando sai a chi parli, puoi comunicare meglio

Da qui, ci siamo chiesti che leva di comunicazione potessimo usare per fare in modo che un seggiolino auto potesse alleviare le loro ansie, soddisfare il desiderio di avere un oggetto bello ed elegante ma anche sicuro e facile da istallare, pulire, regolare.

Le Personas sono state il punto di partenza per cominciare a far ragionare l’azienda su una comunicazione orientata a degli individui particolari e complessi, e non a dei generici clienti senza un volto o un nome, magari identificati con vecchi stereotipi di genitore e di famiglia.

Nel tempo, questi archetipi sono stati via via raffinati dai dati raccolti, che hanno confermato degli aspetti e ne hanno smentiti altri, o in certi casi hanno evidenziato nuovi trend ed evidenze di cui tener conto.

Un marketing con le Personas al centro

Le Personas non sono un concetto statico, ma in continuo movimento e aggiornamento.

Quello che è successo in Peg Perego dopo aver avviato quel processo è stato che le Personas sono diventate il modo in cui pensare non solo i contenuti da veicolare con la comunicazione, ma anche con cui concepire gli stessi prodotti.

Alla fine del percorso, le macro categorie di prodotti erano tagliate esattamente sulle caratteristiche delle cinque principali Personas che avevamo identificato negli anni precedenti.

È giusto lasciare a Google la formazione e l’educazione digitale?

Una delle tre aziende più ricche del mondo si è messa a fare formazione digitale e rilasciare qualcosa di molto simile a delle lauree.

Perché Google ha iniziato a fare formazione? Il motivo si potrebbe riassumere più o meno così:

Care università, i ragazzi che escono dalle vostre scuole non sono pronti al mondo del lavoro. A noi di Google servono professionisti del mondo digitale di un certo tipo per l’attività che facciamo. Perciò, ci pensiamo noi a offrire dei percorsi formativi ad hoc, moderni, verticali (Data Analyst, Project Manager e UX Designer), veloci (non più di 6 mesi) ed economi (circa 300 dollari)”.

Ecco allora le lauree di Google e le università hanno iniziato subito a preoccuparsi per l’ingresso nel mondo dell’istruzione di un player così ricco e potente.

Ci dobbiamo aspettare la Google University?

“Non vi preoccupare, non abbiamo intenzione di lanciare una nuova università” hanno tenuto a precisare da Mountain View.

Sarà, ma intanto le lauree di Google hanno scosso un ambiente, quello degli istituti universitari, che fatica a stare al passo coi tempi e a formare persone capaci di rispondere alle richieste delle aziende, soprattutto digitali.

Image for post

Stando a Google, sul tavolo ci sono ‘solo’ competenze tecniche, almeno inizialmente, cioè come abbiamo detto Data Analyst, Project Manager e UX Designer.

Da tempo esiste però un altro corso specialistico realizzato dagli esperti di Google; riguarda il supporto IT e si può acquistare e frequentare online da tutto il mondo (ha già avuto più di 367mila iscritti).

Chi forma l’intelligenza emotiva?

Da molte parti continuiamo a sentir dire che saranno soprattutto le cosiddette soft skills a fare la differenza nelle professioni del futuro e che le competenze tecniche saranno sempre più prerogativa delle macchine, ogni anno più evolute e più potenti.

Esempi di soft skills sono la capacità di lavorare in gruppo, la creatività, la proattività o la resilienza. Chi dobbiamo aspettarci che si occuperà di formare nei nostri giovani questo tipo di intelligenza ‘emotiva’? Forse Google? Facebook? Amazon?

Image for post

Qualche giorno fa, appena sotto la barra di ricerca di Google è comparso un link che portava al sito di un una nuova iniziativa di educazione digitale dell’azienda americana: Interland.

“Aiutiamo i più giovani a diventare cittadini digitali responsabili”.

Nulla di sbagliato, ma è giusto che sia Google a occuparsi di educazione digitale? Parliamo di un’azienda che offre un servizio che usiamo (quasi) tutti, ma che si basa sul tracciamento di dati e abitudini personali con tecniche che spesso violano la privacy delle persone.

Non possiamo delegate il futuro

Il potere che ormai certe aziende sono in grado di esercitare fa paura se lo pensiamo applicato anche al mondo dell’istruzione o dell’educazione.

Forse è il momento di aprire una seria discussione a riguardo, sia come società civile che come mondo imprenditoriale.

Parlando di formazione professionale, se le istituzione tradizionali non sono in grado di prendere in mano la situazione e di fare da guida, allora dovrebbero essere le aziende stesse, digitali e non, a proporsi come protagoniste anche nel campo dell’insegnamento di competenze e del cosiddetto mindset, quella che una volta si chiamava molto semplicemente ‘mentalità’.

Image for post

Le aziende sono fatte di persone, non sono entità astratte, sono fatte di uomini e donne. È giusto che si preoccupino del presente e del futuro, riscoprendo quel ruolo di utilità sociale del fare impresa che forse si è un po’ perso.

Non importa la dimensione, ogni azienda può fare la sua parte.

La nostra agenzia di comunicazione, ad esempio, è impegnata nell’organizzazione di eventi dedicati al cambiamento, professionale e individuale, e nella divulgazione delle opportunità di progresso collettivo che stanno portando le tecnologie esponenziali, attraverso la sponsorizzazione di Singularity University Legnano Chapter.

Sono temi che la pandemia da Covid-19 ha rilanciato ulteriormente come prioritari nella nostra vita.

Occupiamoci tutti di innovazione e formazione, personale e professionale

Scendi in campo come individuo e come professionista, come fanno i relatori dei nostri eventi che raccontano esempi di disruptions, ribellione e percorsi fuori dagli schemi.

Anche in questo come nel business, sono le start-up e le piccole e medie imprese che possono segnare la via verso l’innovazione.

Non aspettiamo che siano i grandi player a prendersi questo spazio, rischiamo un’ingerenza in questioni che hanno un valore pubblico e sociale troppo importante.

Un uomo e una donna brindano con un calice di vino rosso

Ricette per la Disruption nel mondo del food

Non sono ‘facili e veloci’, c’è dietro tanto lavoro, strategia e spirito creativo. Ecco alcuni ‘piatti’ di successo di cui abbiamo parlato nel nostro evento online.

La Disruption è anche, e soprattutto, nel food. Il cambiamento e l’innovazione sono legati a ogni aspetto della vita e del business, compreso il cibo e il business che c’è dietro al mondo dell’alimentazione.

FDO For Disruptors Only ha toccato anche questo argomento, uno dei più cari al nostro paese, un tema che ha reso famoso il nostro stile di vita ‘mediterraneo’ in tutto in mondo.

Introduction to Disruption

Nella sua introduzione alla Disruption, Riccardo Bovetti ha fatto un piccolo excursus sull’evoluzione del nostro rapporto col cibo. Da cacciatori-raccoglitori, siamo passati a essere allevatori e coltivatori, per poi arrivare a un punto in cui il ruolo sociale del mangiane in compagnia, e discutere di questioni anche molto importanti, ha raggiunto un valore molto alto addirittura nella vita politica.

La situazione odierna è quella di una situazione in cui siamo ricevitori-riscaldatori, cuciniamo molto meno, consumiamo per lo più cibi già pronti e sempre più da soli.

Oggi i ricchi mangiano sempre meglio e sempre meno, i poveri sempre di più e sempre peggio.

Il nostro rapporto col cibo è progressivamente più distaccato.

Una nuova ricetta da provare? Fare dei sacrifici per poterci permettere cose più buone, studiare, informarsi e capire di più. Riscoprire il piacere di cucinare e mangiare insieme, per rimettere il fornello al centro delle nostre case.

Dopo l’introduzione, abbiamo cominciato ad analizzare la Disruption nel cibo analizzando il cambiamento e l’innovazione nel settore per quel che riguarda:

  • Tecnologia produttiva
  • Modalità di approvvigionamento
  • Cerimonia di consumo

Ecco alcune testimonianze su questi tre aspetti.

Come fa un ristorante a reinventarsi?

Non è facile sostituire lo stile e l’esperienza. Eppure Andrea Galassi, CFO della catena di ristoranti ‘Miscusi’, ci ha spiegato come ci si può riuscire.

Miscusi nasce dall’idea che portare in giro lo stile di vita mediterraneo renda le persone più felici. Mangiare insieme, e non solo nutrirsi, contribuisce al benessere.

La dieta mediterranea è al centro di questo stile ed è uno dei pochissimi beni immateriali selezionati come patrimonio dell’Unesco.

Miscusi vuole replicare lo stile di vita mediterraneo e d’intrattenersi a tavola, tipico del nostro paese, nei suoi ristoranti, dove questa visione diventa un momento esperienziale.

Questo modello ha avuto un buon successo: 10 ristoranti aperti in tre anni grazie a questi ‘assembramenti’ fatte di vivacità cene cantate e gioia di stare insieme.

Tutto funzionava bene, la crescita progressiva c’era, ma poi è arrivato il Covid e c’è stato bisogno di reagire, di adattarsi alla situazione e, se possibile, ripartire.

Sì, ma come poterlo fare durante una quarantena nazionale? La ricetta di Miscusi è stata fatta con quattro ingredienti:

  1. Protect the people: ristoranti chiusi a tempo indeterminato, in quel momento nessuno sapeva quando si sarebbero riaperte le porte. È stato comunicato all’interno, ai dipendenti, con una lettera ad hoc, e all’esterno, ai clienti, come una risposta positiva, di fiducia e con senso di vicinanza.
  2. Preserve cash: Miscusi è comunque un business che andava salvaguardato. C’erano dei nuovi ristoranti in apertura, ma i cantieri sono stati bloccati per fermare spese inutili alla luce della situazione di insicurezza generale.
  3. Show the purpose: cosa si può fare per la comunità in un momento così difficile? Come poter aiutare e portate del benessere? Con le scorte di magazzino Miscusi ha consegnato più di diecimila pasti negli ospedali e alle persone bisognose.
  4. Embrace the new normal: la gente non poteva più andare a ristorante, quindi? Miscusi ha impacchettato i suoi cibi e li ha proposti in modo diverso, come prodotti da ordinare e da cucinare a casa. Dopo tre settimane, questa nuova bottega di prodotti era online. Ha funzionato e l’offerta è stata allargata a tutta Italia: 300 ordini al giorno, i prodotti Miscusi sono entrati in 10mila case, il 30% del totale degli acquisti sono stati usati per fare regali.

La nuova normalità, ora? Meno gente al ristorante, meno delivery, più attenzione alla salute.

Abbiamo lavorato sui fornitori per aumentare la qualità e abbiamo deciso di introdurre delle nostre botteghe nei ristorati, sul modello di quartiere. Delle vere e proprie esposizioni di gastronomia, per aumentare le occasioni di acquisto”.

C’è più attenzione alla qualità e imeno gente in città per via dello smart working. Le nuove iniziative ci aiuteranno a far fronte anche a questi cambiamenti”.

I prossimi passi? “Per Natale faremo dei gift pack e sbarcheremo oltreconfine, a Berlino e poi Madrid”.

Mulan (Group), la guerriera che unisce a tavola Italia e Cina

La guerriera Mulan è un po’ la Giovanna d’Arco cinese, è realmente esistita. Sì, proprio la Mulan del film della Disney, l’eroina che andò in guerra al posto del padre. E per Giada Zhang, cresciuta in una famiglia con tre figlie femmine, è la figura che rappresenta come non ci sia differenza tra uomo e donna.

Giada è a capo di un business del settore food che rispecchia un po’ la sua personalità di ‘third culture kid’: la cultura cinese dei genitori, quella italiana presa dal paese dove vive la sua famiglia dagli anni ‘90 e la terza che è il mix tra le altre due culture.

Mulan è il nome della linea di cibi prodotti dalla più grande cucina centralizzata d’Italia, che produce piatti di cucina asiatica con ingredienti italiani di qualità. Un ponte tra due realtà, appunto, costruito grazie al cibo, il primo strumento che permette di conoscere la cultura di un altro paese.

Mulan è l’insieme delle parti più belle di Italia e Cina, chef di origine asiatica che usano ingredienti italiani per fare piatti tipici della tradizione cinese.

Quando abbiamo iniziato a far provare i nostri piatti nella grande distribuzione c’era la coda!”.

In poco tempo, Mulan è arrivata in 10 punti vendita della grande distribuzione. Dopo questa validazione della bontà dei piatti, e dell’idea, è stato aperto uno stabilimento e sono stati assunti altri chef.

Poi subito un cambiamento: invece che prodotti di gastronomia, com’erano stati pensati all’inizio, la domanda del pubblico si indirizzava di più su prodotti monoporzione take away. Da peso variabile, quindi, a peso fisso.

Oggi Mulan è in tutta Italia, in ottomila punti vendita.

La quarantena da Covid ha portato a un calo nella GDO, per i cibi pronti, del 60%.

Il nostro tipo di prodotto è un acquisto di impulso, e in quarantena non c’era più questa spinta, si badava all’essenziale” ha raccontato Giada.

In pochi giorni, Mulan ha reagito mettendo online un e-commerce con un’offerta direct to consumer basata su tre box con contenuti verticali. Da poche decine, all’inizio, a centinaia di ordini in tutta Italia e una lezione da imparare: speed over perfection, perché il tempismo in certi casi è troppo importante.

L’altra lezione è venuta dall’analisi: nessun concorrente per i piatti asiatici aveva un e-commerce verticale. Il motivo è che non c’era domanda?

Ci siamo accorti provandoci che la gente non sapeva di volerlo”.

Come Miscusi, anche Mulan si è attivata per la comunità, offrendo dei piatti gratuiti allo staff medico dell’Humanitas durante la quarantena, per gli ospedali di Torino, Milano e Cremona. Molti medici scrivevano ringraziando perché tornavano a casa e trovavano un piatto pronto.

Vedendo il nostro percorso, abbiamo capito che durante le crisi possono nascere le migliori opportunità. È nato un nuovo canale online di business e continueremo a investire”.

Si può fare business anche non face to face: durante il Covid sono nati dei contatti che ora serviranno a internazionalizzare il business di Mulan.

Planet Farms, ortaggi con un altro sapore

Abbiamo oggi una visione romantica dell’agricoltura, ma la tecnologia ha trovato un grande campo di applicazione anche qui.

Tra le aziende che investono in questo ambito, Planet Farms cerca di rispondere in modo concreto ai problemi che affliggono l’agricoltura tradizionale e che purtroppo trovano riposte solo con la chimica.

L’azienda di Luca Travaglini usa la Vertical Farm, cioè un sistema di coltivazione indoor che consente di controllare tutti i parametri fondamentali nella crescita degli ortaggi. L’obiettivo è quello di ottenere il prodotto più naturale possibile.

I vantaggi di questo sistema sono molti. Di solito si coltiva dove ci sono le condizioni economiche e climatiche, con un grosso impatto ambientale sulla consegna del prodotto per via del trasporto. Con le Vertical Farm, invece, si può coltivare ovunque consumando il 97% di acqua in meno perché si consuma solo quella che c’è nella foglia. Assenza totale di pesticidi, prodotto fresco, sano, 365 giorni l’anno.

Agricoltura diversa, con la sostenibilità come concetto preponderante.

L’idea è nata dopo un periodo con dei seri problemi di salute per Luca. Da qui la necessità di cambiare abitudini e pensare a al futuro, “per cercare di lasciare qualcosa ai nostri figli” ha detto.

Luca sta lavorando a uno stabilimento in cui c’è tutta la filiera e un controllo totale sulla coltivazione: entra un seme ed esce un prodotto confezionato. Lo stabilimento di Cavenago sarà in grado di produrre dalle 40 alle 60 mila confezioni di insalata al giorno, con un sistema di tracciabilità e certificazione basto su blockchain, in totale trasparenza perché tutta la produzione avviene nello stesso luogo.

Il prodotto è una bomba!”, ha commentato Luca “possiamo usare i semi di una volta, non trattati. Noi li proteggiamo e alla fine il prodotto ha un gusto pazzesco. Vertical Farm è un sistema concreto, fa bene, ed è sostenibile, in assenza totale di pesticidi”.

Secondo Luca non ha più senso parlare di sostenibilità: “Non è più una novità, non è uno slogan di marketing, dobbiamo parlare di responsabilità. Quello che facciamo va oltre il lavoro, stiamo ottenendo risultati concreti e siamo molto orgogliosi”.

Planet Farms potrà garantire un prodotto a un prezzo fisso tutto l’anno, buono, di qualità e progressivamente sarà in grado di renderlo più accessibile e competitivo.

Il Covid? “C’ha creato problemi soprattutto sulla costruzione dello stabilimento, ma anche opportunità, perché ha rafforzato il desiderio del consumatore e l’attenzione al consumo”.

La giovane Disruptor di My Cooking Box

Chiara Rota, founder di My Cooking Box, è stata inclusa tra le 100 donne di successo dalla rivista Forbes.

My Cooking Box nasce con l’intenzione di far mangiare un buon piatto italiano dedicando del tempo agli altri per cucinarlo. Ecco così un kit con tutti gli ingredienti per realizzare la ricetta di uno chef.

Il percorso è stato da subito molto duro e complicato, ma anche in questo caso ha funzionato il ‘pronto e subito’ a discapito della perfezione.

Quando Chiara a proposto My Cooking Box ai buyer internazionali, la risposta è stata che prima serviva una validazione in ambito nazionale. In Italia però il pubblico sarebbe stato totalmente diverso, perché l’italiano sa cucinare, conosce le ricette e i prodotti, ha una maggiore cultura del cibo.

Chiara ha così deciso di puntare sul modello distributivo, quindi il kit di My Cooking Box è stato collocato là dove il consumatore non è abituato a trovarlo.

Abbiamo puntato su una leva psicologica, sul contrasto: il prodotto dove non te lo aspetti. Il nostro è un modello di business incentrato sull’inaspettato, e poi sul Made in Italy ma più sulla facilità e la rapidità di cucinare” ha commentato Chiara.

Dopo la validazione in Italia, Chiara ha riproposto il suo progetto all’estero. My Cooking Box ora è distribuito in tutta Europa e a inizio 2020 sbarcherà nel difficile mercato degli Stati Uniti.

Il kit si presta molto bene al regalo e funziona come aggancio per far poi tornare a comprare chi l’ha ricevuto e provato”.

Il Covid ha minato anche il budget disponibile di questo business, però l’idea ha funzionato anche durante la quarantena. È piaciuta la possibilità di mangiare e cucinare insieme, la convivialità, anche a distanza. Il kit aiuta a godersi momenti davanti a un buon piatto.

I nostri consumatori hanno ritmi frenetici, ma sono attenti al prodotto alimentare e magari nel fine settimana vogliono fare bella figura e cucinare qualcosa di buono e gourmet, così usano il nostro kit”.

Difficile identificare un comportamento dell’utente così diversificato, gli utenti sono diversi in base all’occasione di consumo che stanno vivendo”.

Cosa ci siamo portati a casa

Chiara Bacilieri ha più volte stimolato i Disruptor e ha sottolineato come nelle loro idee non ci sono modi diversi di fare le cose, ma anche modi diversi di pensare e questa è la base del cambiamento.

Chiara ha stressato il concetto del ‘cosa c’è dietro’, di capire il perché le persone fanno certe scelte, qual è il problema che vogliono risolvere e soprattutto chi vogliono diventare, chi stanno cercando di essere attraverso un prodotto, anche nuovo, abbracciando un cambiamento.

L’innovazione è un modo di vedere il mondo, di vedere le persone come sono oggi e come invece saranno in futuro e di dargli oggi quello che crediamo vorranno essere domani”.

Ti interessano altri contenuti di questo tipo? Segui nostri eventi.