Loading...

Comunicazione e Covid-19: cosa non ha funzionato

In questo periodo di emergenza, una cosa in particolare è stata molto evidente, e accomuna tutte le dinamiche che si sono susseguite: la comunicazione non ha funzionato.

A chiunque abbia bisogno di ottenere consenso e gradimento, se qualcosa non funziona e va storto, la scusa più semplice sembra sempre questa:

C’è stato un problema di comunicazione oppure Io sono stato chiaro, siete voi che non avete capito”. 

Sono solo scuse.

Quando si comunica, i fattori che possono incidere sulla buona riuscita o no sono 4: il contenuto, la forma, la relazione e il pubblico.

Contenuto

Il problema della comunicazione dipende molto dal contenuto dei messaggi, dalla forma in cui i messaggi sono espressi, dalla relazione tra chi comunica e il suo pubblico e dal fatto che il pubblico sia effettivamente raggiunto dal messaggio trasmesso.

Oggi sembra che lo scopo della comunicazione sia il fatto stesso di comunicare, cercando di presidiare la più vasta area possibile del dibattito e dell’immaginario collettivo. Ma senza uno straccio di contenuto consistente la comunicazione evapora.

Forma

Chi parla o scrive per un pubblico, dovrebbe tenere sempre presente l’efficacia del suo messaggio dipenderà anche dalla scelta delle parole, dal modo in cui saranno combinate, e non solo dagli argomenti.

“Efficace” significa prima di tutto facile da decodificare. Per farsi ascoltare bisogna in primo luogo farsi capire: è la singola, semplice regola che alcuni dei “grandi comunicatori” dei tempi recenti hanno interiorizzato. È una regola che fa la differenza.

Relazione

È proprio il modo in cui diciamo le cose a indicare il “come” consideriamo i nostri interlocutori, e a decidere il tipo di relazione che, comunicando, stabiliamo con loro. Si può essere assertivi, competenti, pacati, risoluti, incisivi, aggressive. Questa è la parte più sfuggente, più sottovalutata e più importante del processo di comunicazione.

Pubblico

Forma e contenuto dei discorsi vanno calibrati sui diversi pubblici: l’istinto aiuta, ma ormai non basta più. Ci vogliono dati e ricerche, sia per individuare forme e contenuti convincenti, sia per selezionare i canali più convenienti per veicolare quei contenuti, in quelle forme, a quei pubblici. Altrimenti, sappiamo già cosa succede: c’è un problema di comunicazione.

Qualche esempio?

Video ‘Milano non si ferma’: viene diffuso poco prima della quarantena. L’invito ai cittadini è quello di non chiudersi, a continuare a frequentare i locali della città e a fare aperitivi. Direi… Messaggio sbagliatissimo. Infatti il sindaco di Milano, che aveva voluto quel video, ha dovuto fare mea culpa.

Ve la ricordate la comunicazione del governo in cui veniva annunciato l’inizio del lockdown, disabato sera tardi? Ha causato l’isteria totale, le persone hanno preso d’assalto supermercati e treni per scappare dalle zone rosse portando chissà quanti contagiati in giro per il paese.

Inps e bonus Cura Italia: appena emesso il decreto, sul sito del INPS si poteva leggere una cosa che diceve più o meno così: “Siamo perfettamente in grado di far fronte a tutte le domande che arriveranno”. Sappiamo tutti com’è andata a finire e cos’è successo al loro sito web. Ovviamente nessuna scusa e nessun problema di comunicazione, per loro è stato solo un disservizio….

Ci sono contenuti falsi e sbagliati che riescono a essere comunicati benissimo, per esempio perché somigliano a quello che il pubblico vuole sentirsi dire.

Qualche volta, invece, la comunicazione non c’entra un fico secco. E il problema sta altrove, perché a non funzionare sono le idee e le azioni conseguenti.

Vendere online non è più una scelta

Con Covid-19 abbiamo capito che anche l’imprevedibile può diventare realtà. Essere preparati è un dovere ed è possibile.

Si è fermato tutto, o quasi. In poche settimane siamo passati dal “è solo un’influenza” alla quarantena, e non eravamo pronti. Non lo eravamo come persone, figuriamoci come aziende.

Chi lavora in un’agenzia lo sa bene quanti problemi abbiano le aziende, in particolare le piccole e medie, con l’approccio agli strumenti digital e alla comunicazione.

Qui al nord (no, non è il titolo di un film) abbiamo a che fare con il proverbiale pragmatismo degli imprenditori lombardi, legati al ‘saper fare’. Questo vuol dire che se gli parli di qualcosa che non si può toccare, fai fatica a far capire quanto possa essere utile.

Relazione, rapporto personale, passaparola, cose detta in faccia”. Tutto vero, ci mancherebbe, ma se a un tratto le persone non le puoi più incontrare? Se non puoi più far vedere di persona la tua azienda e quanto sei bravo a fare quello che fai? Se, da un giorno all’altro, le persone non possono più venire nel tuo negozio a comprare quello che vendi?

Non succede, ma se succede…

Prospettare scenari alla ‘Deep impact’ sembrava un subdolo stratagemma commerciale che faceva leva sulla paura, poi è diventata la realtà.

Vendere online oggi sarebbe un’ancora di salvezza, forse non la soluzione a tutti i problemi di un’azienda, ma certamente un aiuto importante. Chi vende servizi, come consulenza o formazione, usa da tempo il web come canale privilegiato di vendita e di comunicazione che permette di raggiungere una platea molto più vasta, non solo locale come potrebbero fare fisicamente.

Nel mese di marzo 2020, il primo del lockdown, il 75% di chi ha comprato online da aziende del retail non lo aveva mai fatto prima.

Fonte: Forbes.it

Vendere online vuol dire incassare i soldi subito, in anticipo, con pagamenti elettronici. Anche questa sarebbe una grossa boccata di ossigeno in giorni di quarantena da Covid-19.

Vendere online però non vuol dire ‘solo’ avere un sito e-commerce, c’è molto più lavoro alle spalle e devi partire sempre da una strategia. Lo schema ‘vado online col sito ecommerce + pubblicità a pagamento’ ti può portare, forse, qualche risultato nel breve periodo, ma è una strada che dipenderà sempre e solo dalla pubblicità a pagamento. Ci sono altre leve da poter sfruttare.

Il consiglio, di parte, è di non fare tutto da solo se non hai le giuste competenze, che non sono solo informatiche, ma anche di marketing e legali. Mettere online un sito può non essere l’ostacolo più difficile da superare, ma per l’e-commerce ci sono anche implicazioni di legge, sicurezza della piattaforma e dei pagamenti, la logistica, la possibilità di andare online usando più di una lingua, la disponibilità del sito h24 grazie alla giusta soluzione di hosting.

Prevedere l’imprevedibile

Esistono piani di alta disponibilità dei dati e di gestione di situazioni catastrofiche (Disaster Recovery) che servono a pianificare le attività per continuare a lavorare anche dopo disastri naturali, come ad esempio i terremoti.

Pensare a queste cose è un po’ come scegliere di sottoscrivere o meno una copertura assicurativa. Per risparmiare, si tende a non pagare una polizza o una garanzia in più (l’Italia è uno dei paesi più indietro da questo punto di vista, dicono gli assicuratori). È impossibile prevedere l’imprevedibile, ma devi cercare di tutelare il più possibile la tua attività, per te e per le persone che ci lavorano.

Dopo questa pandemia la vita e il nostro lavoro non saranno più come prima. Vendere online non è più una scelta, è un dovere, così come affidarsi a dei professionisti del settore.

La Disruption secondo i Disruptors: Riccardo Bovetti

Con _ Riccardo Bovetti

Presentati _ Partner di EY, mi occupo di consulenza alle imprese su tematiche di Performance Management (qualsiasi cosa voglia dire).

Stiamo vivendo una situazione inedita, che cambierà completamente il contesto sociale ed economico. Ci sarà un pre e un post-COVID19.

Pensi che il modo di affrontare queste giornate possa fare la differenza su quello che ci aspetterà quando tutto questo sarà finito?

Mai come oggi è importante saper imparare, disimparare e imparare di nuovo: quali competenze consiglieresti di allenare o approfondire?

Siccome dovremo essere preparati a tutto dobbiamo sviluppare (e rafforzare) sensibilità critica ed agilità nei confronti del “nuovo” e dell’ignoto. Per cui i suggerimenti sono:

  1. Studiare logica matematica, perché la logica è la base delle cose… è il “cosa” delle cose.
  2. Studiare (o per chi ha già avuto la fortuna di studiarla da giovane riprendere e rinfrescare) la filosofia ed in particolare l’etica, perché in questi momenti difficili abbiamo visto emergere ed affermarsi dibattiti sui temi che coinvolgono fortemente aspetti che ad ogni buon conto ricadono sotto l’ambito dell’etica: dal tracciamento degli spostamenti, alla raccolta e la distribuzione/diffusione di dati ed informazioni sensibili. L’etica e la filosofia sono il “perché” delle cose.
  3. Prendere dimestichezza con la psicologia ed in particolare la psicodinamica, perché dovremo saper affrontare lutti (quelli veri, tristemente numerosi), assenze (anche queste vere e numerose), ma anche “lutti ed assenze” rispetto alle nostre abitudini, al nostro modo di stare al mondo. La psicologia deve darci il “come” delle cose.

Il tuo business o la tua attività ha risentito del lockdown?

Purtroppo sì, per molte ragioni concomitanti. La consulenza alle imprese è un’attività che, salvo pochi topic, non assume carattere di necessità. Quindi abbiamo risentito dello spostamento delle priorità e dell’allungamento (diciamo deferimento) dei processi decisionali. Siamo stati penso una delle prime società ad attivare in modo massivo la modalità Smart Working (siamo sostanzialmente in questa modalità, in tutti gli uffici, dal 21 febbraio scorso), questo ci ha permesso di portare avanti le progettualità che erano in corso al momento del lockdown con risultati in termini di efficienza ed efficacia che devo dire, sinceramente, mi hanno persino stupito (positivamente, devo dire). In questi ultimi giorni stiamo riuscendo a fare una cosa che non avrei mai pensato possibile: presentare un servizio, definirne le caratteristiche, concordare la progettualità, svolgerla e terminarla completamente in “virtuale”.Devo dire che ha dato una grande mano in questo senso anche un’iniziativa – #fermiamocisenzafermarci – che ho voluto lanciare qualche settimana fa per sensibilizzare i miei clienti ed i miei “contatti” circa l’esigenza di avvertire quel senso di “urgenza” del cambiamento (come sotto riportato) e di non rimandare tutto al “POI”, ma di cercare di sfruttare anche questo periodo sospeso per portarsi avanti con qualcosa di quello che non si ha mai tempo di fare in tempi normali. Quindi sì, abbiamo accusato il colpo, stiamo cercando in tutti i modi di reagire rimanendo vicini ai nostri clienti per garantire la continuità del servizio e per prepararsi in modo serio al dopo (intendendo per dopo tutte le fasi che seguiranno, che ineriranno necessità differenti).

Il modello di “Change Management” proposto da John P. Kotter inizia con una fase chiamata: creare il senso di urgenza del cambiamento. Il lockdown ha spinto inevitabilmente a una nuova percezione sotto due punti di vista: vedere la digitalizzazione non più come un mezzo di competizione, ma come una condizione di sopravvivenza e una predisposizione al rischio e al cambiamento completamente nuova.

When you ain’t got nothing, you got nothing to lose”, lo diceva anche Bob Dylan. 

Si scopre quanto si è forti solo quando essere forti è l’unica strada, secondo te quando torneremo alla nuova normalità i benefici di queste consapevolezze potranno essere la chiave per rialzarsi e per diventare, magari, addirittura più competitivi di come eravamo prima?

Sono convinto che il vero parametro di misurazione del cambiamento sarà il fatto che questa consapevolezza diventi inconsapevole. La digitalizzazione, in questo contesto, deve diventare uno strato trasparente, indispensabile ma quasi consciamente inavvertibile… la digitalizzazione come la nuova elettrificazione, per intendersi.

Social media e “canali digitali” hanno mostrato in questo periodo (anzi, stanno mostrando) al tempo stesso il meglio ed il peggio di quello che possono offrire. Da un lato sono stati un motore di condivisione e di “connessione” che rende impossibile immaginare un periodo di questo tipo senza. Dall’altra, purtroppo, hanno costituito (ops, stanno costituendo) anche un palcoscenico “senza filtri” per le nefandezze comunicative per le quali iniziamo (lentamente) a sviluppare anticorpi. Se devo dire la cosa che mi ha lasciato più perplesso (per ragioni di mia scelta personale) è il rendermi conto che in realtà la parte del leone la fanno ancora i media tradizionali, in particolare la TV generalista. Penso che il ruolo del digitale sarà sempre più nel future a support del fisico, anche nel mondo degli eventi e della comunicazione, e che forse contribuirà (on the long run) al declino dei media più tradizionali.

Home-Working o Smart-Working? Non è la stessa cosa essere obbligati a lavorare da casa oppure studiare nuove metodologie di lavoro per renderlo più “smart”. Spesso in Italia confondiamo lo smart-working con pratiche orientate ad una maggiore flessibilità di orario. Il vero smart-working parte da una leadership moderna, orientate alla fiducia e all’empowerment e a un senso di responsabilità molto
alto nei lavoratori. Un lavoro orientato all’outcome, prima che al “monte ore”. Secondo te andrà in questa direzione il futuro del lavoro? Se sì, come prepararsi?

Si andrà necessariamente in questa direzione, fosse anche solo perché questo periodo ha dimostrato il fatto che è possibile farlo. Sarà più difficile giustificare la necessità di richiedere a qualcuno di fare 300 km in auto per una riunione di mezz’ora dopo che per mesi ci si è comportati sotto la spinta del principio di necessità in un modo completamente diverso. Questa non è però necessariamente una buona notizia per tutti. Innanzitutto perché questo ci porterà ad uno “smart divide” tra quelle tipologie di lavoro che lo permetteranno e quelle no. Inoltre, un mondo di “professionisti sul divano” non è esattamente quello che può sostenere alcune delle nostre filiere più important (ad esempio, il tessile).
Prepararsi allo smart-working non significa adottare una tecnologia di videoconference (anche se questo è un passaggio fondamentale): significa ridisegnare alcuni processi di lavoro in una modalità diversa ed adottare “comportamenti organizzativi” completamente diversi. Un mondo del lavoro ancora a “silos” e che integra le informazioni di ogni vertical solo per tramite di momenti di comunicazione “informali” rende impossibile essere efficienti nel momento in cui devono portare in virtuale le attività e queste dovranno necessariamente essere organizzate per processi. Come prepararsi? Identificare le attività critiche, mapparle secondo formalismi che ne permettano di ridisegnare il flusso in termini di processo, eliminare i punti di snood “informali” ed analogici ed abituarsi a svolgerlo in fisico come in virtuale. In pratica dovremo iniziare a lavorare negli uffici nello stesso modo in cui lavorerem(m)o in smart.

Consigliaci un libro, un podcast e un video per prepararci al meglio alla disruption, al fine di renderla stimolo, consapevolezza e non preoccupazione.

Libro: “Pensare l’insosfera. La filosofia come design concettuale” di Luciano Floridi (Cortina, 2020). Perchè la capacità di fare e farsi le domande giuste diventa fondamentale per affrontare il futuro.
Podcast: “Sei Gradi – RAI3”: per abituarsi all’agilità necessaria per passare da un concetto all’altro e per scoprire mondi (in questo caso musicali) nuovi.
Video: “The danger of a Single Story – TED” di Chimamanda Ngozi Adichie, perché raccontare storie è importante e lo è ancora di più in questo momento. E farlo consapevolmente è una necessità pressante.

“Facciamo squadra” non è una frase vuota, anche se siamo lontani

In piena emergenza, stiamo finalmente usando gli strumenti tecnologici come grande mezzo di benessere collettivo. Siamo distanti da parenti e colleghi, ma sentirci uniti è più importante che mai in questo momento. In piena emergenza, stiamo finalmente usando gli strumenti tecnologici come grande mezzo di benessere collettivo.

Qualche tempo fa, ho affiancato il project manager che si occupava dell’introduzione di una nuova piattaforma di collaborazione interna (Facebook Workplace) in un’importante azienda italiana, Cerved.

C’era da trovare uno slogan per comunicare ai dipendenti il nuovo strumento, incitarli all’utilizzo e migliorare il senso di gruppo e di unione.

Cerved lavora nel cotesto finanziario e bancario, anche internazionale, quindi i tecnicismi, quasi sempre in lingua inglese, si sprecano nel normale linguaggio lavorativo di tutti i giorni. Sul tavolo c’erano tre slogan, due in inglese e uno in italiano. Quest’ultimo sulla carta era il più debole, date le premesse del contesto. Fu scelto “Facciamo squadra”, proprio l’opzione in italiano. I motivi erano diversi:

  • l’azienda si presenta come un’eccellenza italiana, anche con i partner esteri;
  • c’era bisogno di essere diretti e chiamare alla partecipazione tutti, non solo sul progetto;
  • serviva creare un senso di appartenenza a qualcosa d’importante, come quello che l’azienda aveva costruito durante la sua storia, fatta di una crescita veloce e costante.

In sostanza, in mezzo alla migliore tecnologia che si possa trovare su un posto di lavoro, c’era la necessità di una maggiore relazione tra le persone,di più empatia e disponibilità a collaborare.

Con lo slogan, a tutti si voleva dire “Facciamo squadra”. È una frase che si usa spesso in molti contesti diversi, dietro non ci sono stati prodigi di creatività, è semplice ma ha un significato forte, anche oggi. In questi giorni d’isolamento da Covid-19, quella esperienza e quello slogan mi sono tornati in mente attuali come non mai.

Oggi siamo costretti a ragionare da comunità per toglierci dai guai, anche se siamo lontani e in isolamento. Ne usciremo solo ragionando e agendo da squadra, non c’è altra soluzione. A pensarci bene, è così sempre. I più grandi problemi che ci affliggono richiedono scelte di gruppo e azioni collettive.

Uscire da una pandemia vuol dire vincere come specie, quella umana, ed è forse la cosa più importante che ci resterà dopo aver passato questo pericolo.

La società dell’individualismo, in cui siamo ormai abituati a ragionare sempre e solo per uno, deve stringersi, pensare da squadra e guardare lontano, progettando il futuro a lungo termine, più in là di oggi o di domani.

Per ripartire ci servirà questo, continuare a pensare da specie, per scelta e non perché costretti, contro i problemi del cambiamento climatico, dell’economia e della nostra azienda.

Facciamo squadra” e le cose miglioreranno.