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È giusto lasciare a Google la formazione e l’educazione digitale?

Una delle tre aziende più ricche del mondo si è messa a fare formazione digitale e rilasciare qualcosa di molto simile a delle lauree.

Perché Google ha iniziato a fare formazione? Il motivo si potrebbe riassumere più o meno così:

Care università, i ragazzi che escono dalle vostre scuole non sono pronti al mondo del lavoro. A noi di Google servono professionisti del mondo digitale di un certo tipo per l’attività che facciamo. Perciò, ci pensiamo noi a offrire dei percorsi formativi ad hoc, moderni, verticali (Data Analyst, Project Manager e UX Designer), veloci (non più di 6 mesi) ed economi (circa 300 dollari)”.

Ecco allora le lauree di Google e le università hanno iniziato subito a preoccuparsi per l’ingresso nel mondo dell’istruzione di un player così ricco e potente.

Ci dobbiamo aspettare la Google University?

“Non vi preoccupare, non abbiamo intenzione di lanciare una nuova università” hanno tenuto a precisare da Mountain View.

Sarà, ma intanto le lauree di Google hanno scosso un ambiente, quello degli istituti universitari, che fatica a stare al passo coi tempi e a formare persone capaci di rispondere alle richieste delle aziende, soprattutto digitali.

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Stando a Google, sul tavolo ci sono ‘solo’ competenze tecniche, almeno inizialmente, cioè come abbiamo detto Data Analyst, Project Manager e UX Designer.

Da tempo esiste però un altro corso specialistico realizzato dagli esperti di Google; riguarda il supporto IT e si può acquistare e frequentare online da tutto il mondo (ha già avuto più di 367mila iscritti).

Chi forma l’intelligenza emotiva?

Da molte parti continuiamo a sentir dire che saranno soprattutto le cosiddette soft skills a fare la differenza nelle professioni del futuro e che le competenze tecniche saranno sempre più prerogativa delle macchine, ogni anno più evolute e più potenti.

Esempi di soft skills sono la capacità di lavorare in gruppo, la creatività, la proattività o la resilienza. Chi dobbiamo aspettarci che si occuperà di formare nei nostri giovani questo tipo di intelligenza ‘emotiva’? Forse Google? Facebook? Amazon?

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Qualche giorno fa, appena sotto la barra di ricerca di Google è comparso un link che portava al sito di un una nuova iniziativa di educazione digitale dell’azienda americana: Interland.

“Aiutiamo i più giovani a diventare cittadini digitali responsabili”.

Nulla di sbagliato, ma è giusto che sia Google a occuparsi di educazione digitale? Parliamo di un’azienda che offre un servizio che usiamo (quasi) tutti, ma che si basa sul tracciamento di dati e abitudini personali con tecniche che spesso violano la privacy delle persone.

Non possiamo delegate il futuro

Il potere che ormai certe aziende sono in grado di esercitare fa paura se lo pensiamo applicato anche al mondo dell’istruzione o dell’educazione.

Forse è il momento di aprire una seria discussione a riguardo, sia come società civile che come mondo imprenditoriale.

Parlando di formazione professionale, se le istituzione tradizionali non sono in grado di prendere in mano la situazione e di fare da guida, allora dovrebbero essere le aziende stesse, digitali e non, a proporsi come protagoniste anche nel campo dell’insegnamento di competenze e del cosiddetto mindset, quella che una volta si chiamava molto semplicemente ‘mentalità’.

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Le aziende sono fatte di persone, non sono entità astratte, sono fatte di uomini e donne. È giusto che si preoccupino del presente e del futuro, riscoprendo quel ruolo di utilità sociale del fare impresa che forse si è un po’ perso.

Non importa la dimensione, ogni azienda può fare la sua parte.

La nostra agenzia di comunicazione, ad esempio, è impegnata nell’organizzazione di eventi dedicati al cambiamento, professionale e individuale, e nella divulgazione delle opportunità di progresso collettivo che stanno portando le tecnologie esponenziali, attraverso la sponsorizzazione di Singularity University Legnano Chapter.

Sono temi che la pandemia da Covid-19 ha rilanciato ulteriormente come prioritari nella nostra vita.

Occupiamoci tutti di innovazione e formazione, personale e professionale

Scendi in campo come individuo e come professionista, come fanno i relatori dei nostri eventi che raccontano esempi di disruptions, ribellione e percorsi fuori dagli schemi.

Anche in questo come nel business, sono le start-up e le piccole e medie imprese che possono segnare la via verso l’innovazione.

Non aspettiamo che siano i grandi player a prendersi questo spazio, rischiamo un’ingerenza in questioni che hanno un valore pubblico e sociale troppo importante.

Un uomo e una donna brindano con un calice di vino rosso

Ricette per la Disruption nel mondo del food

Non sono ‘facili e veloci’, c’è dietro tanto lavoro, strategia e spirito creativo. Ecco alcuni ‘piatti’ di successo di cui abbiamo parlato nel nostro evento online.

La Disruption è anche, e soprattutto, nel food. Il cambiamento e l’innovazione sono legati a ogni aspetto della vita e del business, compreso il cibo e il business che c’è dietro al mondo dell’alimentazione.

FDO For Disruptors Only ha toccato anche questo argomento, uno dei più cari al nostro paese, un tema che ha reso famoso il nostro stile di vita ‘mediterraneo’ in tutto in mondo.

Introduction to Disruption

Nella sua introduzione alla Disruption, Riccardo Bovetti ha fatto un piccolo excursus sull’evoluzione del nostro rapporto col cibo. Da cacciatori-raccoglitori, siamo passati a essere allevatori e coltivatori, per poi arrivare a un punto in cui il ruolo sociale del mangiane in compagnia, e discutere di questioni anche molto importanti, ha raggiunto un valore molto alto addirittura nella vita politica.

La situazione odierna è quella di una situazione in cui siamo ricevitori-riscaldatori, cuciniamo molto meno, consumiamo per lo più cibi già pronti e sempre più da soli.

Oggi i ricchi mangiano sempre meglio e sempre meno, i poveri sempre di più e sempre peggio.

Il nostro rapporto col cibo è progressivamente più distaccato.

Una nuova ricetta da provare? Fare dei sacrifici per poterci permettere cose più buone, studiare, informarsi e capire di più. Riscoprire il piacere di cucinare e mangiare insieme, per rimettere il fornello al centro delle nostre case.

Dopo l’introduzione, abbiamo cominciato ad analizzare la Disruption nel cibo analizzando il cambiamento e l’innovazione nel settore per quel che riguarda:

  • Tecnologia produttiva
  • Modalità di approvvigionamento
  • Cerimonia di consumo

Ecco alcune testimonianze su questi tre aspetti.

Come fa un ristorante a reinventarsi?

Non è facile sostituire lo stile e l’esperienza. Eppure Andrea Galassi, CFO della catena di ristoranti ‘Miscusi’, ci ha spiegato come ci si può riuscire.

Miscusi nasce dall’idea che portare in giro lo stile di vita mediterraneo renda le persone più felici. Mangiare insieme, e non solo nutrirsi, contribuisce al benessere.

La dieta mediterranea è al centro di questo stile ed è uno dei pochissimi beni immateriali selezionati come patrimonio dell’Unesco.

Miscusi vuole replicare lo stile di vita mediterraneo e d’intrattenersi a tavola, tipico del nostro paese, nei suoi ristoranti, dove questa visione diventa un momento esperienziale.

Questo modello ha avuto un buon successo: 10 ristoranti aperti in tre anni grazie a questi ‘assembramenti’ fatte di vivacità cene cantate e gioia di stare insieme.

Tutto funzionava bene, la crescita progressiva c’era, ma poi è arrivato il Covid e c’è stato bisogno di reagire, di adattarsi alla situazione e, se possibile, ripartire.

Sì, ma come poterlo fare durante una quarantena nazionale? La ricetta di Miscusi è stata fatta con quattro ingredienti:

  1. Protect the people: ristoranti chiusi a tempo indeterminato, in quel momento nessuno sapeva quando si sarebbero riaperte le porte. È stato comunicato all’interno, ai dipendenti, con una lettera ad hoc, e all’esterno, ai clienti, come una risposta positiva, di fiducia e con senso di vicinanza.
  2. Preserve cash: Miscusi è comunque un business che andava salvaguardato. C’erano dei nuovi ristoranti in apertura, ma i cantieri sono stati bloccati per fermare spese inutili alla luce della situazione di insicurezza generale.
  3. Show the purpose: cosa si può fare per la comunità in un momento così difficile? Come poter aiutare e portate del benessere? Con le scorte di magazzino Miscusi ha consegnato più di diecimila pasti negli ospedali e alle persone bisognose.
  4. Embrace the new normal: la gente non poteva più andare a ristorante, quindi? Miscusi ha impacchettato i suoi cibi e li ha proposti in modo diverso, come prodotti da ordinare e da cucinare a casa. Dopo tre settimane, questa nuova bottega di prodotti era online. Ha funzionato e l’offerta è stata allargata a tutta Italia: 300 ordini al giorno, i prodotti Miscusi sono entrati in 10mila case, il 30% del totale degli acquisti sono stati usati per fare regali.

La nuova normalità, ora? Meno gente al ristorante, meno delivery, più attenzione alla salute.

Abbiamo lavorato sui fornitori per aumentare la qualità e abbiamo deciso di introdurre delle nostre botteghe nei ristorati, sul modello di quartiere. Delle vere e proprie esposizioni di gastronomia, per aumentare le occasioni di acquisto”.

C’è più attenzione alla qualità e imeno gente in città per via dello smart working. Le nuove iniziative ci aiuteranno a far fronte anche a questi cambiamenti”.

I prossimi passi? “Per Natale faremo dei gift pack e sbarcheremo oltreconfine, a Berlino e poi Madrid”.

Mulan (Group), la guerriera che unisce a tavola Italia e Cina

La guerriera Mulan è un po’ la Giovanna d’Arco cinese, è realmente esistita. Sì, proprio la Mulan del film della Disney, l’eroina che andò in guerra al posto del padre. E per Giada Zhang, cresciuta in una famiglia con tre figlie femmine, è la figura che rappresenta come non ci sia differenza tra uomo e donna.

Giada è a capo di un business del settore food che rispecchia un po’ la sua personalità di ‘third culture kid’: la cultura cinese dei genitori, quella italiana presa dal paese dove vive la sua famiglia dagli anni ‘90 e la terza che è il mix tra le altre due culture.

Mulan è il nome della linea di cibi prodotti dalla più grande cucina centralizzata d’Italia, che produce piatti di cucina asiatica con ingredienti italiani di qualità. Un ponte tra due realtà, appunto, costruito grazie al cibo, il primo strumento che permette di conoscere la cultura di un altro paese.

Mulan è l’insieme delle parti più belle di Italia e Cina, chef di origine asiatica che usano ingredienti italiani per fare piatti tipici della tradizione cinese.

Quando abbiamo iniziato a far provare i nostri piatti nella grande distribuzione c’era la coda!”.

In poco tempo, Mulan è arrivata in 10 punti vendita della grande distribuzione. Dopo questa validazione della bontà dei piatti, e dell’idea, è stato aperto uno stabilimento e sono stati assunti altri chef.

Poi subito un cambiamento: invece che prodotti di gastronomia, com’erano stati pensati all’inizio, la domanda del pubblico si indirizzava di più su prodotti monoporzione take away. Da peso variabile, quindi, a peso fisso.

Oggi Mulan è in tutta Italia, in ottomila punti vendita.

La quarantena da Covid ha portato a un calo nella GDO, per i cibi pronti, del 60%.

Il nostro tipo di prodotto è un acquisto di impulso, e in quarantena non c’era più questa spinta, si badava all’essenziale” ha raccontato Giada.

In pochi giorni, Mulan ha reagito mettendo online un e-commerce con un’offerta direct to consumer basata su tre box con contenuti verticali. Da poche decine, all’inizio, a centinaia di ordini in tutta Italia e una lezione da imparare: speed over perfection, perché il tempismo in certi casi è troppo importante.

L’altra lezione è venuta dall’analisi: nessun concorrente per i piatti asiatici aveva un e-commerce verticale. Il motivo è che non c’era domanda?

Ci siamo accorti provandoci che la gente non sapeva di volerlo”.

Come Miscusi, anche Mulan si è attivata per la comunità, offrendo dei piatti gratuiti allo staff medico dell’Humanitas durante la quarantena, per gli ospedali di Torino, Milano e Cremona. Molti medici scrivevano ringraziando perché tornavano a casa e trovavano un piatto pronto.

Vedendo il nostro percorso, abbiamo capito che durante le crisi possono nascere le migliori opportunità. È nato un nuovo canale online di business e continueremo a investire”.

Si può fare business anche non face to face: durante il Covid sono nati dei contatti che ora serviranno a internazionalizzare il business di Mulan.

Planet Farms, ortaggi con un altro sapore

Abbiamo oggi una visione romantica dell’agricoltura, ma la tecnologia ha trovato un grande campo di applicazione anche qui.

Tra le aziende che investono in questo ambito, Planet Farms cerca di rispondere in modo concreto ai problemi che affliggono l’agricoltura tradizionale e che purtroppo trovano riposte solo con la chimica.

L’azienda di Luca Travaglini usa la Vertical Farm, cioè un sistema di coltivazione indoor che consente di controllare tutti i parametri fondamentali nella crescita degli ortaggi. L’obiettivo è quello di ottenere il prodotto più naturale possibile.

I vantaggi di questo sistema sono molti. Di solito si coltiva dove ci sono le condizioni economiche e climatiche, con un grosso impatto ambientale sulla consegna del prodotto per via del trasporto. Con le Vertical Farm, invece, si può coltivare ovunque consumando il 97% di acqua in meno perché si consuma solo quella che c’è nella foglia. Assenza totale di pesticidi, prodotto fresco, sano, 365 giorni l’anno.

Agricoltura diversa, con la sostenibilità come concetto preponderante.

L’idea è nata dopo un periodo con dei seri problemi di salute per Luca. Da qui la necessità di cambiare abitudini e pensare a al futuro, “per cercare di lasciare qualcosa ai nostri figli” ha detto.

Luca sta lavorando a uno stabilimento in cui c’è tutta la filiera e un controllo totale sulla coltivazione: entra un seme ed esce un prodotto confezionato. Lo stabilimento di Cavenago sarà in grado di produrre dalle 40 alle 60 mila confezioni di insalata al giorno, con un sistema di tracciabilità e certificazione basto su blockchain, in totale trasparenza perché tutta la produzione avviene nello stesso luogo.

Il prodotto è una bomba!”, ha commentato Luca “possiamo usare i semi di una volta, non trattati. Noi li proteggiamo e alla fine il prodotto ha un gusto pazzesco. Vertical Farm è un sistema concreto, fa bene, ed è sostenibile, in assenza totale di pesticidi”.

Secondo Luca non ha più senso parlare di sostenibilità: “Non è più una novità, non è uno slogan di marketing, dobbiamo parlare di responsabilità. Quello che facciamo va oltre il lavoro, stiamo ottenendo risultati concreti e siamo molto orgogliosi”.

Planet Farms potrà garantire un prodotto a un prezzo fisso tutto l’anno, buono, di qualità e progressivamente sarà in grado di renderlo più accessibile e competitivo.

Il Covid? “C’ha creato problemi soprattutto sulla costruzione dello stabilimento, ma anche opportunità, perché ha rafforzato il desiderio del consumatore e l’attenzione al consumo”.

La giovane Disruptor di My Cooking Box

Chiara Rota, founder di My Cooking Box, è stata inclusa tra le 100 donne di successo dalla rivista Forbes.

My Cooking Box nasce con l’intenzione di far mangiare un buon piatto italiano dedicando del tempo agli altri per cucinarlo. Ecco così un kit con tutti gli ingredienti per realizzare la ricetta di uno chef.

Il percorso è stato da subito molto duro e complicato, ma anche in questo caso ha funzionato il ‘pronto e subito’ a discapito della perfezione.

Quando Chiara a proposto My Cooking Box ai buyer internazionali, la risposta è stata che prima serviva una validazione in ambito nazionale. In Italia però il pubblico sarebbe stato totalmente diverso, perché l’italiano sa cucinare, conosce le ricette e i prodotti, ha una maggiore cultura del cibo.

Chiara ha così deciso di puntare sul modello distributivo, quindi il kit di My Cooking Box è stato collocato là dove il consumatore non è abituato a trovarlo.

Abbiamo puntato su una leva psicologica, sul contrasto: il prodotto dove non te lo aspetti. Il nostro è un modello di business incentrato sull’inaspettato, e poi sul Made in Italy ma più sulla facilità e la rapidità di cucinare” ha commentato Chiara.

Dopo la validazione in Italia, Chiara ha riproposto il suo progetto all’estero. My Cooking Box ora è distribuito in tutta Europa e a inizio 2020 sbarcherà nel difficile mercato degli Stati Uniti.

Il kit si presta molto bene al regalo e funziona come aggancio per far poi tornare a comprare chi l’ha ricevuto e provato”.

Il Covid ha minato anche il budget disponibile di questo business, però l’idea ha funzionato anche durante la quarantena. È piaciuta la possibilità di mangiare e cucinare insieme, la convivialità, anche a distanza. Il kit aiuta a godersi momenti davanti a un buon piatto.

I nostri consumatori hanno ritmi frenetici, ma sono attenti al prodotto alimentare e magari nel fine settimana vogliono fare bella figura e cucinare qualcosa di buono e gourmet, così usano il nostro kit”.

Difficile identificare un comportamento dell’utente così diversificato, gli utenti sono diversi in base all’occasione di consumo che stanno vivendo”.

Cosa ci siamo portati a casa

Chiara Bacilieri ha più volte stimolato i Disruptor e ha sottolineato come nelle loro idee non ci sono modi diversi di fare le cose, ma anche modi diversi di pensare e questa è la base del cambiamento.

Chiara ha stressato il concetto del ‘cosa c’è dietro’, di capire il perché le persone fanno certe scelte, qual è il problema che vogliono risolvere e soprattutto chi vogliono diventare, chi stanno cercando di essere attraverso un prodotto, anche nuovo, abbracciando un cambiamento.

L’innovazione è un modo di vedere il mondo, di vedere le persone come sono oggi e come invece saranno in futuro e di dargli oggi quello che crediamo vorranno essere domani”.

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Come vivere in pace e in armonia con un copywriter

Poche e semplici regole da seguire in agenzia, più un bonus

Il copywriter è una brutta bestia, me lo dico da sola.

Solitamente introverso ai limiti della misantropia — o estroverso in pieno spirito Milano-da-bere, ma son rari — il copywriter vive nella convinzione di essere un genio incompreso e condivide questa certezza con l’art director, con il quale mette in piedi una relazione fatta alternativamente di litigate e pacche sulle spalle accompagnate da frasi tipo “Sei meglio tu” “No, ma che dici, tu sei più creativo”.

Le altre figure d’agenzia si tengono opportunamente alla larga da questa coppia, e fanno bene. Ti consiglio di fare altrettanto, ma lascio qui sotto qualche consiglio per tenerti buono “il copy” per quella volta che ti servirà il payoff per una bevanda energizzante o un biglietto per la tua migliore amica che si sposa.

Regola 1 – Un testo al volo

Ci sono poche cose che fanno saltare i nervi al copy più della frase “Fammi un testo al volo”.

Un testo non si fa al volo: per il copywriter le parole vanno scelte, accarezzate, messe una accanto all’altra per vedere se stanno bene assieme. Sì, anche quando bisogna rispondere a un commento su Facebook o quando bisogna scrivere il microcopy di un pop up. Testo corto non significa testo facile.

Prova con la formula “Mi servirebbe un testo breve ed efficace, puoi aiutarmi?”. Il copy verrà toccato nel suo punto più debole, la vanità, e non potrà dirti di no (se sei il capo non può dirti di no in ogni caso, ma comunque).

Regola 2 – Via dai luoghi comuni

Questa regola non è utile solo ad evitare conflitti con il copy, ma serve ad analizzare con occhio critico i testi di un cliente o di un competitor.

La regola dice: un luogo comune è un luogo abusato e va evitato.

Questo significa che no, non possiamo scrivere che il cliente X è leader del settore (quale settore? Quale leader? Possibile che le aziende dello stesso settore siano tutte leader?) e nemmeno che i servizi che il cliente Y fornisce sono a 360° (cos’è, un goniometro?).

Non lo possiamo scrivere e nemmeno lo vogliamo scrivere perché i luoghi comuni sono deprimenti, vuoti e non raccontano davvero ciò che il cliente fa e ciò in cui crede.

Non solo: se proponiamo al cliente la classica About page di leader del settore a 360°, il tempo di permanenza sulla pagina degli utenti sarà bassissimo e non saremo riusciti a farci notare dal lettore.

Qui c’è un elenco di espressioni che un copywriter nel 2020 non può più usare. Se lo fa, spezzagli le matite (le dita non si può).

  • L’evento si è tenuto nella splendida cornice — A parte che “si è tenuto” si usava nei giornali locali degli anni Novanta (lo so perché ci ho lavorato e già allora pareva abusato), ma concentriamoci sulla splendida cornice. Se il testo è scritto per esaltare la location, lo fa male perché la relega al semplice ruolo di cornice; se il testo è scritto invece per parlare dell’evento, non serve usare espressioni vuote e ritrite per allungarlo. Tagliare.
  • Fin dalla più tenera età— Indica l’età precisa, non stare sul vago.
  • Esperienza ventennale/trentennale/pluriennale — Da quanti anni fai questo lavoro non mi è di nessun aiuto anche perché potresti lavorare male “da tre generazioni”, altra espressione da evitare.
  • Il nostro team è professionale e competente — Ma dai? Pensavo assumessi gente a caso.
  • Seguiamo il cliente in ogni fase del progetto — E ci mancherebbe pure.
  • Le nostre tecnologie sono di ultima generazione — Se lo sono davvero, spiegati meglio. Se non lo sono, lascia perdere ed evita una brutta figura.
  • Siamo un’azienda giovane e dinamica — Certo, è proprio così che parlano i giovani, infatti.
  • Connubio tra tradizione e innovazione — IL MALE ASSOLUTO.

Regola 3 – La. Punteggiatura.

Che i refusi o gli errori ortografici facciano andare in bestia i copywriter, si sa. Una certa indulgenza serve sempre, però: un rfuso capita a tutti 🙂

Se c’è una cosa che invece un copy non riesce a perdonare è l’abuso di punteggiatura.

I puntini di sospensione sono sempre e solo tre, possono essere usati al massimo una volta in un testo mediamente lungo quindi non spargerli come manciate di semi ai piccioni di piazza San Marco. I punti esclamativi e interrogativi vanno usati uno alla volta e mai assieme (unica eccezione possibile ammessa: “Ma veramente sono finiti i Twix nelle macchinette?!” perché il dolore é dolore e va enfatizzato).

Mai terminare le frasi con due o tre punti esclamativi di seguito, innanzitutto perché l’entusiasmo è fastidioso e poi perché non si fa, è scorretto e basta. Mi spingo oltre: meglio usare poco anche i punti esclamativi singoli, fanno effetto televendita di basso livello.

Ah, ti presento anche il punto e virgola ; può essere usato, non morde.

Bonus

Infine, per tutti. Se dovete parlare con noi, non fateci una call: fateci una telefonata 🙂

Una ‘Brand New Fashion’ e la tecnologia che va di moda

SingularityU Legnano ha parlato di fashion dall’interno, dando voce a chi sta innovando direttamente dalle proprie aziende.

Il futuro del settore Fashion e Design è tutto da ridisegnare, e non solo a causa del lockdown. Sostenibilità, riuso, nuovi materiali e nuovi processi di ridistribuzione. Una nuova consapevolezza, anche, nei confronti del bello. La ’fast fashion può essere ancora la risposta alla forzata bulimia di consumo? Esiste un modo per traghettare la moda nell’epoca post-Covid19?

Ne abbiamo parlato nella Mission Three del Legnano Chapter di Singularity University, con imprenditori che operano nel settore. Storie di aziende e persone che hanno già da tempo abbracciato l’innovazione tecnologia per affrontare i cambiamenti del mercato e della società e guardare con ottimismo al futuro.

I consumi e il settore moda oggi

Anche il mondo del fashion è stato colpito duro dal Covid-19. Lo ha spiegato Erika Andreetta, Consumer Markets Consulting Leader di PwC Italy: sui consumi c’è stata una diminuzione del 30% nel mondo. Prima della pandemia ci si aspettava di spendere di più rispetto all’anno precedente, ma in Italia il lockdown è stato più lungo del previsto e l’incertezza sulla stabilità del posto di lavoro ha bloccato la fiducia. Il Covid ha avuto un impatto sui consumi ma anche sulla filiera del tessile e del calzaturiero. Ora il settore è in ripresa.

Il consumatore ha cambiato le modalità di acquisto”.

Erika Andreetta (PwC Italy)

Con la diminuzione del reddito del 57% è diminuita anche la spesa per i consumi, con una previsione di -45%. È aumentata la home delivery, ma non si riescono comunque a coprire i volumi persi.

In periodo Covid è aumentato l’ordine online di generi alimentari, soprattutto le categorie base come farina uova e pasta ed è diminuita la vendita di piatti pronti, evidenza di un cambio delle abitudini. L’acquisto di calzature, abbigliamento e prodotti del beauty ha fatto registrare un meno 70%.

La filiera tessile ha avuto una riconversione solidale alla produzione di mascherine e camici, a supporto di ospedali e comunità locali. L’aspetto solidale è quello della collaborazione tra aziende competitor, che per i due mesi della quarantena si sono scambiate informazioni per la produzione in favore di chi era in prima linea contro il coronavirus.

Da sottolineare che la riconversione delle linee di produzione di molte di queste aziende è avvenuta per donare il materiale agli ospedali, rifiutando la cassa integrazione e pagando i propri dipendenti.

C’è un ritorno della tecnologia. Quello che poteva sembrare un uso solo per giovani, sta diventando necessario per tutti”.

Erika Andreetta (PwC Italy)

Gli strumenti digitali rendono più democratica la moda anche i più giovani e meno conosciuti riescono a farsi conoscere. Dobbiamo sfruttare i benefici che la tecnologia offre.

Un tessuto di nuova concezione che costa più dell’oro

Francesco Lazzati si occupa di Business development per Technow, azienda di famiglia del settore tessile, innovativa, che si occupa anche di tessitura, tintoria, resinatura, laminatura… Passaggi importanti per la qualità del prodotto.

Dal punto di vista della tecnologia, anche questo settore si è evoluto. Prima i cosiddetti ‘salti tecnologici’ erano diluiti nel tempo, ora l’innovazione è ogni sei mesi.

Per questo in Technow hanno deciso di non aspettare più le richieste dei clienti per far partire la ricerca e sviluppo (R&D), tutto parte dall’iniziativa interna.

Francesco Lazzati (Technow)

Un esempio concreto è il tessuto idrorepellente senza sostanze nocive o l’uso del grafene, un materiale di recente scoperta che consente di arricchire le proprietà di un prodotto: antibatterico, antistatico, conduttività termica.

La parte difficile nell’introdurre una novità come questa, il grafene, in azienda, è stata identificare un processo che riuscisse a mantenere le qualità del materiale anche quando magari è sottoposto a stress, per bilanciasse le sue performance ma anche che contesse i costi (il grafene costa infatti più dell’oro), per non andare fuori mercato.

Dopo un anno di tentativi e fallimenti, Technow sta iniziando a impiegare il grafene nell’abbigliamento di lusso.

Il valore del design e del brand

Stefano Aschieri è co-founder con il fratello di Wood’d, brand di oggettistica per la tecnologia. L’idea nasce dall’azienda di famiglia che lavora il legno e produce stuzzicadenti, appendini e oggetti per la grande distribuzione.

Con Wood’d, Stefano e il fratello riescono a distinguersi con qualcosa di diverso, puntando sulla qualità del prodotto e sul target degli oggetti di lusso.

Nel 2013 producono la prima cover per iPhone in legno, un prodotto Made in Italy dal prezzo elevato (40/50 euro) rispetto alle altre presenti sul mercato e questo li ha posizionati su un target alto spendente. Lo stesso anno, con Pitti Immagine inizia la loro avventura e ora le principali aziende del fashion sono loro clienti.

Stefano definisce il brand Wood’d un utility premium, cioè qualcosa che vale poco ma che grazie al design e al brand cresce, grazie anche alle tante collaborazioni con artisti che danno importanza alla loro community.

Lavorando molto con la Cina, anche per loro l’impatto negativo del Covid-19 si è fatto sentire.

Chi fa accelerare le start-up

Nazzareno Mengoni è il co-founder di Startupbootcamp, azienda che aiuta le start-up a crescere e affermarsi. Il 75% delle start-up che si affidano all’azienda riesce a sopravvivere, ed è interessante notare come il 42% delle start-up abbia una fondatrice donna.

Il programma di Startupbootcamp prevede una prima fase di scouting, poi una call con mille start-up che si propongono tra cui ne vengono scelte 250, infine le migliori 30 vengono invitate nella sede fisica e solo le migliori 10 possono partecipare al programma di accelerazione.

Le migliori imprese emergenti di solito sono quelle B2B”.

Nazzareno Mengoni ( Startupbootcamp)

Per costruire l’ecosistema per far crescere le start-up, Startupbootcamp si occupa di:

  • analisi del mercato
  • omnichannel e retail
  • sostenibilità come modello di business

Tra i partner dell’azienda ci sono Intel, Rabobank, Eneco e Lloyd Banking Group.

Trasformazione digitale anche per le fiere

Marco Carniello (Group Brand Director Jewellery & Fashion di Vicenzaoro) ha parlato di come col Covid “o ti evolvi o muori”.

Le fiere, ad esempio, si stanno integrando alla parte digitale, la parte fisica beneficia della simmetria informativa. La fiera è un momento di ispirazione, è una piattaforma che serve alla community. La commistione col digitale può fare in modo che le fiere diventino momenti di intervalli fisici trasmessi digitalmente tutto l’anno.

Marco è impegnato anche su Origin, fiera che nasce nel 2014 per dare voce alla parte della filiera concentrata sulla moda.

Capita di incontrare aziende che sono production driven, che magari sono piccole e non si sanno vendere bene”.

Marco Carniello (Italian Exhibition Group)

Le piccole e medie aziende di moda del Made in Italy possono presentare le proprie competenze ed essere seguite in un cammino di crescita.

Una delle fiere più conosciute, come Vicenzaoro, invece, ha un approccio nuovo, un nuovo modo di intendere il mercato. Uno degli aspetti più importanti di questa esposizione è proprio la sostenibilità.

Supportano i brand nel loro percorso di sostenibilità

Serena Moro è Head of Sustainability di Cikis, azienda nata nel settembre del 2019 e che si occupa di sostenibilità delle aziende di moda e di creare fiducia nei confronti di consumatori e clienti.

Serena ha raccontato di come i brand chiedano sempre di più di migliorare la qualità dei materiali. Cikis aiuta le aziende a trovare questi materiali, più sostenibili.

Quando si compra un materiale si compra tutta la filiera, così come il suo impatto energetico”.

Serena Moro (Cikis)

Cikis aiuta a implementare la tracciabilità di tutta la filiera, aiutando a conoscere gli altri fornitori che la compongono.

The Zen agency è sponsor di SingularityU Legnano Chapter: crediamo nella tecnologia esponenziale come strumento per la crescita del benessere delle persone. Agiamo in un contesto locale, ma parliamo di temi di interesse globale e formiamo comunità di pensatori che guardano al futuro, spinti dalla passione e dalla volontà di fare. Gli eventi che organizziamo riuniscono le persone per avere un impatto positivo, necessario per superare le grandi sfide dell’umanità.

Unisciti a noi! Partecipa ai nostri eventi, diventa un volontario o un relatore. Contattaci, ti aspettiamo.