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L’Intelligenza Artificiale ci aiuta a prendere decisioni importanti

Nella Mission One di Singularity University Legnano si è parlato di tecnologie che cambieranno le nostre vite e di etica.

La grande sfida della AI (all’inglese, Artificial Intelligence) è disegnare il futuro grazie alle sue enormi potenzialità, nel rispetto di canoni etici e delle nostre libertà.

È questo il messaggio finale emerso dalla Mission One di Singularity University Legnano Chapter,evento online che ha visto protagonisti due esperti del tema AI: Fabio Moioli di Microsoft e Massimo Pellegrino, Partner e New Ventures Lead di di PwC.

Perché abbiamo paura della AI

Forse da una questione culturale e dai film di fantascienza, quelli in cui i robot diventavano nemici degli esseri umani e ne prendevano il posto. Ci sono lavori verranno sicuramente automatizzati nel prossimo futuro, molti di più di quanto possiamo pensare. Fabio Moioli ha spiegato, però, con molti esempi concreti e reali, come i migliori risultati si ottengano dalla collaborazione tra l’intelligenza umana e quella artificiale.

Inoltre, ricordiamoci che l’AI si basa su algoritmi programmati da persone, dipendono dalle scelte degli esseri umani.

A me più dell’intelligenza artificiale, fa paura la stupidità umana”.

Fabio Moioli (Microsoft)

Sono i nostri difetti a potersi riflettere negli algoritmi, come i pregiudizi, la discriminazione o la corruzione. Gli algoritmi imparano da noi e, purtroppo, possono imparare anche queste cose.

Dove può arrivare questa tecnologia

È un po’ come chiedersi in quante applicazioni potremmo usare l’elettricità. Non lo possiamo sapere, l’orizzonte e molto ampio e ricco di possibilità e opportunità” ha commentato Moioli.

L’AI è, come la corrente appunto, una General Purpose Technology, gli ambiti di utilizzo sono i più diversi, dal business alla sanità, uno dei settori,quest’ultimo,con le maggiori prospettive per la ricerca e le diagnosi, per esempio.

Quello che dobbiamo capire è che la AI serve per aumentare la nostra intelligenza, per aiutarci a prendere decisioni importanti”ha aggiunto Moioli.

Fabio Moioli (Microsoft)

Dobbiamo porci un problema etico

Massimo Pellegrino risponde a questa domanda sulla scia di quanto spiegato da Moioli. L’AI è oggi pervasiva, è già nelle nostre vite in modo importante, anche se non ce ne siamo accorti. Prende decisioni, grandi e piccole.

Il problema etico nasce perché l’elevato numero di calcoli che compiono gli algoritmi matematici che compongono l’AI, rende difficile sapere come questa decisione venga presa.

L’Unione Europea è all’avanguardia sul tema dell’etica dell’Intelligenza Artificiale, probabilmente per ragioni culturali. Già sulla protezione dei dati personali ha il GDPR, una normativa moderna e che gli altri continenti non hanno. Dell’etica legata alla tecnologia ne ha fatto uno dei terreni su cui competere con Stati Uniti e Cina, che sono più indietro da questo punto di vista”.

Massimo Pellegrino (PwC Italy)

Su cosa si basa l’attenzione all’etica di questa tecnologia? Su dei principi fondamentali come:

  • La centralità delle persone: l’uomo può interagire con la tecnologia, ma deve sempre essere lui a decidere o a poter intervenire, in qualsiasi momento.
  • Qualsiasi tipo di intelligenza o tecnologia non deve danneggiare l’essere umano,né da un punto di vista psicologico né fisico.
  • La tecnologia non deve discriminare e deve rispettare principi di giustizia ed equità.
  • L’intelligenza artificiale deve essere spiegabile e trasparente.

Come riuscire ad applicare questi principi?L’UE ha scelto di far partire questa regolamentazione dalle applicazioni AI considerate più ad alto rischio, per mercati e tipologia. Massimo Pellegrino ha spiegato che “serve un processo di Governance, qualcosa che porti a una certificazione delle applicazioni di AI, come succede per i dispositivi medici e i bilanci delle grandi aziende”.

L’obiettivo della UE è quello di fare in modo che aumenti la fiducia sulle possibilità e le opportunità dell’Intelligenza Artificiale, considerando anche i potenziali rischi sulle applicazioni che hanno un impatto sulle nostre vite.

La Disruption secondo i Disruptors: Roberto Bonzio

Con _ Roberto Bonzio

Presentati _ giornalista curioso (ex Gazzettino, Giorno e Reuters) che racconta storie,  autore di un progetto creativo nato sul ponte fra Italia e Silicon Valley. Italiani di Frontiera indaga da anni sul talento italiano ricercato ed esaltato all’estero spesso mortificato in patria. Storytelling, spettacoli, viaggi d’ispirazione  e un libro  (EGEA 2015, prefazione di Gian Antonio Stella) che hanno dato vita a una community internazionale di innovatori.  

Stiamo vivendo una situazione inedita, che cambierà completamente il contesto sociale ed economico. Ci sarà un pre e un post-COVID19.

Pensi che il modo di affrontare queste giornate possa fare la differenza su quello che ci aspetterà quando tutto questo sarà finito?

Fra emergenza sanitaria ed emergenza economica ne dovremo affrontare altre non meno temibili: emergenze culturali e psicologiche. Dalle settimane di isolamento forzato usciamo disorientati, spaventati, impoveriti. Ma anche con una nuova consapevolezza, perché  siamo stati costretti dal virus a rivedere tutti i nostri rapporti: con gli altri, con chi ci rappresenta, con la scienza, col resto del mondo, con l’ambiente… persino con  noi stessi. Ma questa nuova consapevolezza è una straordinaria opportunità, per cambiare in meglio, non tornare indietro.  

Mai come oggi è importante saper imparare, disimparare e imparare di nuovo: quali competenze consiglieresti di allenare o approfondire?

Sono da sempre convinto che sia la curiosità la dote principale, da coltivare. Curiosità significa essere aperti e persino attratti da quello che  esula dalla nostra routine. Cos’è la “contaminazione” parola persino abusata oggi parlando di innovazione, se non la capacità di trovare risposte inedite e soluzioni in qualcosa che non c’entra col nostro ristretto campo di conoscenza? Da questo punto di vista i social ci illudono di essere una finestra aperta sul mondo, mentre ci viziano e limitano selezionando contenuti, post o film adattandosi ai nostri gusti. Invece imparare e disimparare, come raccomandato dal futurologo Alvin Toffler, si fa aprendosi a conoscenze inattese.

Il tuo business o la tua attività ha risentito del lockdown?

Mi trovo in una situazione schizofrenica. Perché se il mio business tradizionale è e sarà a zero per mesi, visto che guadagnavo da interventi di storytelling e spettacoli, viaggi a Silicon Valley, dall’alto alto tutti i contenuti di Italiani di Frontiera, parole chiave, suggestioni mi sembrano straordinariamente pertinenti a quella Rivoluzione Culturale che questa emergenza può innescare.  Per questo ho realizzato una nuova piattaforma grazie alla partnership con una promettente start up di Intelligenza Artificiale, SistemEvo. Si chiama #neusciremomigliori(www.italianidifrontiera.eu) e sta raccogliendo eccezionali contributi di ispirazione da connazionali di talento in patria e all’estero, su come cogliere opportunità in quest’epoca di drammatici cambiamenti. E ispirare i più giovani a guardare con fiducia al futuro.

Il modello di “Change Management” proposto da John P. Kotter inizia con una fase chiamata: creare il senso di urgenza del cambiamento. Il lockdown ha spinto inevitabilmente a una nuova percezione sotto due punti di vista: vedere la digitalizzazione non più come un mezzo di competizione, ma come una condizione di sopravvivenza e una predisposizione al rischio e al cambiamento completamente nuova.

Sicuro, l’approccio al digitale è l’esempio lampante di questa Rivoluzione culturale.

Solo perché costretti da circostanze drammatiche, molti imprenditori, professionisti di aziende e mondo della scuola hanno scoperto che il lavoro digitale non è una nicchia trascurabile di cui diffidare, è uno strumento potente, una enorme opportunità che richiede però un modo diverso di ragionare. Non è una novità che eventi drammatici producano brutali accelerazioni a cambiamenti che erano in corso ma procedevano lentamente fra mille ostacoli.

“When you ain’t got nothing, you got nothing to lose”, lo diceva anche Bob Dylan. 

Si scopre quanto si è forti solo quando essere forti è l’unica strada, secondo te quando torneremo alla nuova normalità i benefici di queste consapevolezze potranno essere la chiave per rialzarsi e per diventare, magari, addirittura più competitivi di come eravamo prima?

Non ho dubbi che questa emergenza rappresenti una colossale opportunità. Ma tutto dipende da noi, far tesoro di cambiamenti e nuova consapevolezza vuol dire saper abbandonare stereotipi e cattive abitudini di cui faticavamo a liberarci: conflittualità e rivalità, ricerca di alibi e capri espiatori, diffidenza. La scommessa sul futuro si gioca su un rapporto diverso con gli altri, che deve essere ispirato a fiducia. Perché abbiamo capito che progresso, sicurezza e persino salute non li possiamo difendere “a scapito” di altri. Ci sarà salvezza solo tutti assieme. 

Anche le agenzie di comunicazione e il mondo degli eventi saranno obbligate a cambiare, a studiare nuove strade per dare nuove risposte ai propri clienti.

Secondo te, quale sarà la direzione da prendere, il ruolo del digitale e dei social media come evolverà?

E’ una grande sfida, anche questa culturale. Penso ci sarà una selezione brutale, che penalizzerà quanti rincorreranno affannosamente  vecchi modelli e favorirà chi saprà inventare e creare nuove modalità di comunicazione e persino eventi in format virtuale e digitale. Difficile dire ora come e cosa, di sicuro io ho già iniziato a lavorarci, con interviste e incontri su piattaforme digitali, persino due spettacoli da 70 minuti… con davanti solo un computer e una cinquantina di persone che mi seguivano (ottimi feedback alla fine) ma che non potevo vedere. Un bell’esercizio di concentrazione…

Home-Working o Smart-Working? Non è la stessa cosa essere obbligati a lavorare da casa oppure studiare nuove metodologie di lavoro per renderlo più “smart”. Spesso in Italia confondiamo lo smart-working con pratiche orientate ad una maggiore flessibilità di orario. Il vero smart-working parte da una leadership moderna, orientate alla fiducia e all’empowerment e a un senso di responsabilità molto alto nei lavoratori. Un lavoro orientato all’outcome, prima che al “monte ore”. Secondo te andrà in questa direzione il futuro del lavoro? Se sì, come prepararsi?

Di sicuro curiosità e flessibilità saranno parole chiave per aprirsi a soluzioni diverse. E di sicuro, come emerso dalle mie video interviste con amici ed esperti, il mondo del lavoro è stato spinto da questa emergenza anche a considerare che non è l’orario in ufficio ma i risultati prodotti a dar valore. E che l’idea che le persone e le aziende si valutino su come hanno svolto bene un compito secondo I protocolli previsti lascerà spazio a una valutazione su quanto e come siano riusciti a soddisfare esigenze magari impreviste e a risolvere problemi dei clienti.

Consigliaci un libro, un podcast e un video per prepararci al meglio alla disruption, al fine di renderla stimolo, consapevolezza e non preoccupazione.

Come libri sto leggendo con interesse “Range” di David Epstein (Best seller New York Times) su come in un mondo specializzato… trionfino I generalisti, concetto che da anni fa parte di IdF, visto che per molti degli italiani di successo incontrati all’estero proprio l’aver competenze in campi diversi e non essere super specialisti è stata la chiave del  successo. E non occorre essere contemporaneamente  ingegneri, scienziati e artisti come Leonardo… Tra I libri in italiano “La notte di un’epoca. Contro la società del rancore. I dati per capirla e le idee per curarla” di Massimiliano Valerii direttore generale Censis fa un’analisi approfondita di quella negatività che pervade il Paese (ma mi aspettavo di più sulle proposte). Il podcast che consiglio invece  è musicale, The Road House, blues davvero sempre di qualità. Quanto ai film, imperdibile “The Great Hack” su Netflix che ricostruisce l’inquietante retroscena dello scandalo Cambridge Analytica, svelando come il controllo abusivo di dati social abbia cambiato la nostra storia, probabilmente anche nell’elezione di Trump e nella Brexit. Zuckerberg e Facebook ne escono a pezzi. per la profonda assenza di valutazione delle conseguenze del proprio lavoro, spesso pregiudicato. Mancanza di “consapevolezza”, la parola chiave che deve accompagnarci in questi giorni, per sognare un mondo migliore. 

Smart working e Covid-19: la crisi apre al futuro?

Lavoro agile e telelavoro: una volta passata la pandemia, non sarà più forte la voglia di tornare in ufficio?

A chiunque abbia bisogno di ottenere consenso e gradimento, se qualcosa non funziona e va storto, la scusa più semplice sembra sempre questa:

Con il diffondersi del Coronavirus, per cercare di contenere le probabilità di contagio e per la salute dei propri dipendenti, le aziende italiane, dietro consiglio e sollecitazione del Governo, si sono mobilitate e impegnate ad attivare dei sistemi di smart working, in Italia “lavoro agile”.

Il decreto n.6 del 23 febbraio 2020 emesso dal Governo, ha infatti previsto “la sospensione delle attività lavorative per le imprese, ad esclusione di quelle che erogano servizi essenziali, di pubblica utilità e di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare ossia dalla propria abitazione”.

La conseguenza è stata che molte realtà imprenditoriali hanno dovuto ripensare e riorganizzare il proprio assetto lavorativo adottando lo smart working come modello di lavoro. Tutto questo ha coinvolto circa 8,3 milioni di lavoratori.

In questi giorni i mass media hanno spesso parlato di smart working affiancandolo più volte al termine “telelavoro”. Ma smart working e telelavoro non sono sinonimi!

Esiste una vera e propria definizione di lavoro agile o smart working, data dal Ministero del Lavoro nel 2017:

“Il lavoro agile è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

Si parla di una tipologia di lavoro priva di vincoli che permette di lavorare ovunque, in qualsiasi luogo ci si trovi, anche da casa, senza una postazione fissa.

Anche gli orari sono flessibili e permettono di gestire il lavoro in autonomia, nel rispetto delle scadenze lavorative. È un’ottima soluzione per chi ha problemi nel raggiungere il luogo di lavoro o a seguire orari fissi, come può accadere, ad esempio, ai neo-genitori.

Non significa però che il dipendente in lavoro agile non abbia degli obblighi nei confronti dell’azienda. Deve infatti garantire la sua reperibilità e una tabella di marcia, condivisa con i suoi colleghi.

Nel telelavoro, invece, il lavoratore dipendente svolge la sua prestazione di lavoro non in un luogo qualunque esterno ai locali aziendali, ma in una postazione di lavoro esplicitamente definita nel contratto di assunzione (tipicamente da casa) e dotato di tutti gli strumenti necessari per lo svolgimento della prestazione (personal computer, tablet, ecc.). Gli orari di lavoro sono definiti nello stesso contratto e non possono essere modificati unilateralmente dal lavoratore. Infine, è previsto di norma un solo rientro a settimana nel posto di lavoro tradizionale.

Verso che forma di lavoro stiamo andando?

Comprendere la differenza tra smart working e telelavoro serve a capire se l’Italia si stia effettivamente muovendo verso lo smart working o se ciò che stiamo vivendo è soprattutto una forma diffusa di telelavoro.

Spesso, infatti, si tende a parlare impropriamente di smart working, privandolo della sua componente principale “smart” (lavorare senza nessun vincolo di spazio e di tempo) riducendolo al semplice “lavoro da casa”.

L’attuale emergenza sanitaria ha trasformato l’Italia in un paese connesso digitalmente. Adesso gran parte delle attività si svolgono a distanza, a partire da quelle lavorative fino ad arrivare alle lezioni scolastiche e universitarie.

Assistiamo a parrocchie che celebrano la messa in diretta su Instagram, a palestre che organizzano sessioni di training online, a enti di formazione che aprono gratuitamente l’accesso ai loro contenuti.

Queste sono tutte risposte di un paese che non si arrende di fronte al difficile momento storico che sta vivendo e che ritrova nella tecnologia lo strumento più efficace per affrontare l’isolamento forzato. E questo panorama si sta riflettendo anche sull’organizzazione del lavoro.

Se le imprese che seguono modelli di business decentrati hanno avuto meno difficoltà ad applicare o semplicemente a estendere lo smart working, così non è stato per le molte aziende figlie di una cultura organizzativa fondata sul presenzialismo. In linea generale, le aziende e le persone si sono dovute velocemente riorganizzare di fronte all’emergenza Coronavirus correndo il rischio di trovarsi impreparate a implementare e gestire in modo corretto lo smart working. Attivare un progetto di smart working richiede del tempo, mentre la situazione attuale ha obbligato persone e imprese a fare propri gli strumenti del lavoro agile nel modo più rapido.

La crisi apre al futuro?

Tutti gli addetti ai lavori sono convinti che, terminata l’emergenza, il numero dei lavoratori agili si attesterà su una cifra ben più alta di quella censita nell’ultimo autunno. Ma dopo settimane di distanza dai colleghi e con tutte le difficoltà del lavoro da casa, in un momento in cui sono chiuse le scuole e non sono possibili gli spostamenti, è probabile che molti vorranno tornare alla concretezza dei rapporti umani, della pausa caffè, della riunione organizzata al volo, relegando, erroneamente, il lavoro agile in una parentesi drammatica della propria esperienza.

La Disruption: o torniamo sul palco o ci muoio

LA DISRUPTION SECONDO I DISRUPTORS: O TORNIAMO SUL PALCO O CI MUOIO

di Ciccio Rigoli

Ho cominciato a fare spettacoli seriamente nel 2001. Per la prima serata di cabaret dei Mensana (ai tempi in trio) ci pagarono 150mila lire totali. Diviso 3, 50mila lire a testa. Ero felicissimo, avevo cominciato a fare spettacoli. Da lì non ho più smesso.

Credo che in ormai 19 anni non sia passato un mese consecutivo senza mai fare almeno un’esibizione, un laboratorio, un reading, insomma, non mi metto a contarle le volte che sono stato sul palco perché farei notte. Facciamo almeno 50 volte sul palco l’anno moltiplicato per 19? Fa 980 volte, più o meno. Quasi mille esibizioni di vario tipo, quindi diciamo che stare sul palco mi piace. Dal momento in cui mi si attorciglia lo stomaco e spero che annullino la serata per non dovermi esibire (giuro, ho spesso sperato annullassero la serata per la paura di esibirmi), fino al momento in cui scendo dal palco solitamente sudato ed esausto.

E, adesso, mi manca tutto. Anche la colite spastica del pomeriggio prima dell’esibizione.

In teatro non viene ammesso il viola perché il viola, nella liturgia cattolica, è il colore della Quaresima. E, durante la Quaresima, ovvero i 40 giorni prima della Pasqua, gli attori non potevano esibirsi e facevano la fame. Roba medievale, pensavamo. Figurati se tornerà una Quaresima in cui non potremo più esibirci, anche in tempo di guerra i teatri erano aperti per allietare le truppe. Fino a due mesi fa pensavamo questo, o meglio, non ci pensavamo neanche perché era un’ipotesi troppo remota.

Poi, ‘sto cazzo di virus nemico delle nostre abitudini e anche di quelli che stanno sul palco a dire, cantare, ballare, far ridere la gente.

Da quasi due mesi sono chiusi tutti i locali, i teatri, le balere, ogni spazio. E se almeno durante la Quaresima si sapeva quando sarebbe finita, qua non se ne vede la fine. E ogni giorno che passa è sempre peggio, perché pare che tutti si siano dimenticati del mondo della cultura e dello spettacolo. Siamo solo carne da streaming, ormai.

I primi giorni, quando si chiuse tutto, partirono i proclami. Nessuno sarà abbandonato! Nessuno perderà il lavoro! L’Italia è la Patria della Cultura e la difenderemo!

Sì, il cazzo. La Patria della Cultura il cazzo.

Tempo due settimane e nessuno si ricordava già più di quelli che andavano a fare gli spettacoli, buttavano il sangue per fare le prove, per organizzare tutto sperando che la gente ci venisse, andavano dietro ai gestori dei locali per esibirsi.

Nessuno si ricorda dei gestori dei locali che provavano a fare spettacoli e a garantire il pagamento agli artisti a costo di rimetterci del loro.
Nessuno si ricorda di quelli che gestiscono i teatri indipendenti e fanno i miracoli per pagare tutti, per mettere in piedi un cartellone degno, che fanno dei corsi, che ci vivono davvero con la cultura, con lo spettacolo, con il loro mestiere che in troppi sbeffeggiano pensando che si stia a fare le scenette, la recita, le musichine.

Ci sono persone dietro al divertimento, che mettono il pubblico e lo spettacolo davanti a tutto, e che se non salgono su quel palco ci muoiono. Perché stare sul palco è una delle peggiori paure al mondo ma, per chi ha il coraggio di farlo, è soprattutto la cosa più bella del mondo.
L’unica risposta che è arrivata è quella della “piattaforma di streaming”. Che è come dire che se non possiamo fare l’amore possiamo pur sempre farci le pugnette davanti a PornHub Premium, tanto è gratis, no? Il risultato è lo stesso, no?

Beh, se vi accontentate delle pugnette, va pure bene. Ma non venitemi a dire che è amore.

Stiamo continuando a esibirci nell’unico modo che abbiamo, lo streaming, ma non è per niente la stessa cosa. Lo streaming è solo un surrogato dello spettacolo. Dobbiamo guardare le persone, modulare la voce, sudare, buttare di nuovo il sangue. E se non si può fare adesso, va bene, aspetteremo, ma non venitemi a dire sempre e soltanto che ci sono cose più importanti. Probabilmente costruire tubi e montare automobili rende di più, ma non per questo dovremmo stare zitti e buoni che tanto noi ci divertiamo a fare quel lavoro, che tanto noi possiamo anche stare senza pensieri, visto che campiamo d’arte.
Qua servono soluzioni, e in fretta, sennò alla ripresa ve le potete scordare le risate che vi siete fatti a vedere qualcuno sul palco. Perché, se questo è il modo in cui si viene dimenticati, tanto vale fare un altro mestiere e rassegnarsi a non salirci più, su quel palco.

C’è una data almeno indicativa in cui potremo tornare a esibirci? C’è un piano per non far crollare tutto o esistono solo quei 600 euro che chissà se torneranno e che comunque non bastano?

Avete una minima idea di come fare a salvare chi non sa quando potrà tornare a fare il suo mestiere mentre voi parlate solo del tornare a lavorare intendendo come lavoro la metalmeccanica e il manifatturiero? Avete intenzione di dircelo prima o poi? Ci avete mai pensato? Qua, come direbbe qualcuno, “sembra che l’unico che fa uno sforzo per evitare di menarvi sono io!”

Io voglio sapere quando potrò tornare su quel palco. Altrimenti ci muoio. E vogliono saperlo tanti altri che, come me, altrimenti ci muoiono. Lo spettacolo è stato il primo settore a chiudere, e sarà l’ultimo a riaprire. Sempre se esisterà ancora qualcuno che vorrà tornare a esibirsi alla fine di questa quarantena, dopo aver visto esattamente ancora una volta quanto non importi a nessuno della condizione di chi fa questo mestiere.